È uscito in questi giorni il numero 23 de L’Almanacco de La Terra Trema, rivista trimestrale autofinanziata e pubblicata a partire dal novembre 2015. Riprendiamo dall’ultimo numero un articolo di Ilaria Scarcella con illustrazioni di Andrea Rossi.
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Risistemo la borsetta verniciata in oro per la quarantesima volta. Oggetti inutili, vestiti sfilacciati, addobbi per la casa, candele profumate e giochi per bambini, adulti e anziani messi fuori posto in una frazione di secondo. Il mio compito è questo: sistemare, risistemare, aggiustare e, talvolta, cestinare ciò che è rotto, anche se nuovo.
Nella catena commerciale per cui lavoro è così. Il mio turno, per fortuna è di cinque ore. Si esce di casa la mattina presto (io personalmente alle 5:00) per raggiungere uno dei più grandi centri commerciali di Milano, che da Abbiategrasso dista 30 km. Tutto sommato fattibile per un mese di contratto a cinque euro l’ora.
La mattina lasciare presto Abbiategrasso è uno spettacolo; quando il cielo è limpido e le nuvole sono spazzate via dal vento notturno si intravedono l’alba e le montagne innevate (partendo dalla circonvallazione di viale Papa Paolo VI e guardando verso Magenta – un tratto di fondamentale importanza che tornerà utile dopo). Un abbaglio di luce seguito da uno sbadiglio: è una mattina di metà dicembre, tra pochi giorni mi laureo, lo penso mentre parcheggio nel retro del centro commerciale di Rozzano. Tutto appare di un colore uniforme, grigio, opaco al cui sguardo le cose galleggiano con un peso specifico nell’inarrestabile corrente del denaro. Sono già vestita (tutta rigorosamente di nero: dalla maglietta fino alle scarpe, la cui marca dobbiamo far attenzione non sia visibile: bisogna togliere qualsiasi distrazione al prodotto), mi dirigo verso il reparto assegnato oggi: borse, cinture e valigie. Uno strazio. Le borse, oltre a odorare di colla ed essere esteticamente inguardabili, sono anche tra gli accessori più complicati da sistemare, avendo una loro rigidità, non si mettono mai nella stessa posizione di partenza. E questo, i clienti lo notano.
Il nostro dovere (quello della sottocategoria di lavoratori che non ha un contratto diretto ma con un’agenzia) è di tenere gli scaffali illibati, perché secondo la logica del consumo, si vende di più se c’è ordine e pulizia, insomma, non si deve capire che quella cintura è stata già guardata da cento occhi e toccata da mille mani prima del cliente, altrimenti perde il suo valore di consumo.
Nei momenti di pausa pranzo, nella saletta comune, si può parlare con gli altri colleghi (solo ed esclusivamente se indossano la maglietta nera come la tua) e guai a farlo mentre sei in attività. La conseguenza? Rimproveri e minacce di rescissione del contratto. Mentre li osservo vedo tutti i tipi umani: adolescenti alla prima occupazione, uomini di mezza età che hanno perso il lavoro, donne che in pausa chiamano i figli. Sono dispiaciuta, per me: quello è un “non luogo” come un altro, per altri è la speranza di un impiego. Mi giro e mangio, guardo il telefono anch’io per non pensare alle tre ore che mi mancano, apro Instagram e spengo il cervello. Questo è lavorare in un centro commerciale.
UN VIAGGIO IN TRENO
Dopo venti minuti di ritardo mi sistemo sul primo vagone, sono passati due anni dal lavoro al centro commerciale ma la direzione è sempre quella. Il treno che porta da Abbiategrasso a Milano Porta Genova è al limite della capienza, come sempre.
Mi ritrovo schiacciata in piedi sulla porta dal lato sinistro del treno e guardo inevitabilmente fuori. Una mattina come le altre, penso, fino a che alzo la testa e cerco di fare attenzione a quella zona di terra che il treno sorpassa ogni giorno, oggetto di controversie da anni, il Pagiannunz (Parco Giardino dell’Annunziata), l’area umida dietro l’ex Convento dell’Annunciata, tra il Naviglio Grande, la ferrovia della linea Milano-Mortara e la piccola circonvallazione. Avevo sentito parlare della magia di quel tratto, senza mai vederla davvero. Il treno passando a 100 km orari, ha disturbato uno stormo di uccelli, che per protesta si è sollevato in volo. Lì in quell’istante ho capito il motivo di tanto parlare, di tanto sacrificio. Un ventennio di battaglie contro l’edificazione per un istante di vita: uno stormo di uccelli che si alza in volo, spirito.
Questo territorio è teatro di una guerra di ideali da anni. L’amministrazione comunale con le società private interessate pavoneggia dagli anni Novanta un piano urbanistico vintage che prevede un centro commerciale, degli appartamenti, parcheggi e altri cubi di cemento per ospitare non si sa ancora bene quali attività. I terreni e i progetti sono di una società immobiliare, la Essedue srl (il cui socio di maggioranza è Tigros spa, società della Grande Distribuzione Organizzata) e di BCS, storica azienda abbiatense di macchine agricole, oggi compagnia multinazionale.
L’Annunciata, fulcro reale di questa storia, è stata nel corso del tempo oggetto di svariate rivisitazioni strutturali e sociali. Eretta nel Quattrocento come convento, vede alle sue spalle un enorme terreno agricolo storicamente utilizzato per la coltivazione, gli orti dei monaci (lì, proprio dove si sono sollevati in volo gli uccelli). Nell’Ottocento venne trasformata in ospizio, dando alloggio alla sezione maschile della Pia Casa degli Incurabili riservata a individui privi di mezzi di sostentamento e afflitti da “malattie schifose ed incurabili o mala conformazione di corpo od imbecillità di mente” che non potessero essere assistiti nelle proprie case o negli ospedali ordinari. Sul finire dello stesso secolo l’edificio è venduto e si trasforma prima in fabbrica di catrame, poi in falegnameria e damigianeria. È nel Novecento che inizia a divenire luogo abitativo, caratteristica che manterrà per l’intero secolo. Nei primi anni Cinquanta sarà luogo di accoglienza per gli sfollati del Polesine e poi casa, Casa Occupata, per migranti principalmente dal sud Italia spostatisi al nord (anni Sessanta). Arriverà dopo l’onda di migranti da Albania e Nord Africa (anni Novanta). Tutto questo dura fino a quando l’amministrazione propone riqualificazione e rivalutazione della struttura ai fini di adibirla a polo universitario.
Oggi l’Annunciata è un’area dismessa costata milioni di euro di soldi pubblici (per un periodo affidata gratuitamente allo chef Carlo Cracco). Oggi il destino della vasta area agricola e naturale (pari a 65 campi da calcio) alle sue spalle è il grande punto interrogativo.
Questo territorio è dunque a un bivio. Alla devastazione del Pagiannunz si affianca quella per la cosiddetta tangenziale Vigevano-Malpensa: altre tonnellate di asfalto e cemento su Parco Agricolo Sud Milano e Parco del Ticino. Un’opera commissariata dal governo e inserita tra i progetti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Ma rimane difficile credere a progetti intitolati “di rigenerazione urbana, riqualificazione e transizione ecologica” se il modello economico resta sempre lo stesso.
NARRAZIONI TOSSICHE
Sono molte le narrazioni con cui si prova ad offuscare la natura di questi progetti. Una tra queste è la promessa di realizzare un progetto di housing sociale per il ceto medio (esiste ancora?), per chi non è abbastanza ricco da permettersi una abitazione sul mercato e chi non è abbastanza povero per accedere alle case popolari. Un’altra è quella legata alla retorica del lavoro (quella che mi ha portato a finire sfruttata nell’ennesimo centro commerciale).
Ciò che manca nei calcoli economici dei teorici, come fa notare ancora Bauman, è quell’immensa area occupata dall’economia morale. Un’area non soggetta a flussi di denaro che comprende la condivisione familiare di beni e servizi, l’aiuto dei propri vicini, la cooperazione tra gruppi di individui; tutte le strategie, azioni e pulsioni di cui sono intessuti i legami umani. I surrogati dei negozi e dello shopping non sostituiscono il rapporto umano, che può essere tenuto vivo soltanto nell’aggregazione. Un’aggregazione che può, com’è successo su questo territorio, portare avanti vent’anni di lotte, come dimostrano le quattordicimila firme contro la tangenziale, poi le più di quattromila firme contro il centro commerciale, i presidi, i cortei, gli incontri, i festival. La communitas sopravvive in base alla fantasia, all’inventiva e al coraggio di infrangere la routine e tentare modi di vivere mai provati prima. La communitas ha perso moltissimo terreno (reale, fisico, tangibile): “sui campi da essa un tempo coltivati vanno moltiplicandosi bancarelle che sperano di espandersi e diventare centri commerciali”. Il capitale ha sedotto e incastrato il corpo che ora fatica a opporsi anche fisicamente (com’è successo proprio al Pagiannunz) con centinaia di corpi che impedivano, bloccavano un processo; il capitale (la politica, la lotta fatta online) ha bloccato il corpo a feticcio.
Facciamo un passo indietro e ripercorriamo la storia dei centri commerciali. Il centro commerciale è la sintesi delle gallerie e grandi magazzini di paese. Nati negli Stati Uniti, presto si sono espansi in periferia portando alla costruzione di strade extraurbane. Una volta diventato parte della cultura occidentale, il centro commerciale si trasforma in luogo di socializzazione, e quindi anche il design andava curato nella sua dimensione di attrazione. A nessuno importava più se il carello passava o no tra le corsie, l’importante era potersi sedere su panchine di finta ceramica per vedere l’acqua delle fontane scorrere nella piazza centrale del centro commerciale. Il problema sorge quando il supermercato da non luogo (secondo la definizione di Augé i luoghi sono spazi fisici legati a una precisa cultura, dotati di radici nel contesto culturale, capaci di restituire identità e relazione) diventa accredito di personalità. L’identità introvabile in questi non luoghi (luoghi di passaggio che non creano radici) viene plasmata da un nuovo senso di appartenenza: alla cultura del consumo contemporanea. L’identità sociale, quindi, si riversa nei prodotti acquistati e nelle loro marche. Così la communitas si frammenta, divide, scinde se stessa dagli altri creando individui singoli e trasformandoci in homo (singolare) oeconomicus.
E così si comportano le nuove tecnologie. Se prima per portare avanti lotte di questo tipo bastavano una chiamata e qualche messaggio sui vecchi Nokia 3310, le persone si ricapitolavano immediatamente, anche nella notte per opporre resistenza fisica, ora che la comunicazione (e il capitalismo) è all’assalto del sonno, diventa sempre più difficile creare una mentalità comune capace di lottare e credere in ideali che siano capaci di andare oltre nel tempo. Ma allora che lotta è la lotta moderna? Quello che funziona della disobbedienza civile è un richiamo all’uso del corpo come strumento di opposizione, come messaggio politico. Un ritorno all’uso del corpo per riappropriarsi del diritto di opporsi, di non essere coscienze che condividono un link, o raccolgono firme virtuali, ma di essere prima di tutto corpi che condividono un’azione, una respinta, un’opposizione. Una chiamata alle armi per allontanarci dall’indifferenza e (ri)tornare a riflettere, partecipare per un territorio che non è solo il posto in cui dormiamo o attraversiamo con la macchina; insomma, non una città in cui viviamo, ma una città che viviamo.
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