“La crisi idrica sta mettendo in ginocchio le produzioni industriali e agricole e tra poco anche il semplice uso domestico dell’acqua. Ci sono gravi responsabilità in questo senso da parte dell’attuale governo, insieme a quelli che si sono succeduti negli ultimi anni”, scriveva Giorgia Meloni sul Corriere della Sera nel luglio del 2022, quando era ancora a capo di un partito di opposizione e ogni giorno sui mezzi di comunicazione venivano proposte immagini di laghi in secca e di fiumi ridotti a ruscelli. Nella lettera Meloni, dopo aver lamentato la scarsezza di risorse dedicate al tema all’interno del Pnrr, suggeriva al governo presieduto da Mario Draghi di avviare il prima possibile un piano invasi per migliorare la distribuzione dell’acqua, di valutare l’uso di impianti di desalinizzazione per ottenere acqua potabile da quella marina e di incentivare l’“agricoltura di precisione”, capace di coniugare risparmio idrico, produzione ambientale e produzione agricola.
Nel frattempo l’estate è finita e Meloni è diventata primo ministro, ma la crisi idrica è rimasta e sembra aggravarsi di settimana in settimana. Il governo esita a prendere decisioni, lascia aleggiare la possibilità di ricorrere a dei razionamenti e valuta la nomina di un nuovo commissario, mentre l’idea di costruire degli invasi per raccogliere l’acqua per l’irrigazione è stata riproposta dall’Associazione nazionale consorzi di gestione e tutela del territorio e acque irrigue (Anbi) e dalla Coldiretti.
«Il problema non è questa siccità, ma tutto il sistema. Questo genere di rimedi non sono altro che dei palliativi, non incidono sulle cause del problema. Già da anni era chiaro che il nostro modello agricolo avrebbe portato alla desertificazione di un’area come la pianura padana, dove è molto diffusa la coltivazione del mais, che ha bisogno di tanta acqua, soprattutto a scopi zootecnici», ci dice dalla provincia di Cuneo l’agricoltore Fabrizio Garbarino dell’Associazione rurale italiana. È proprio nell’irrigazione che finisce la maggior parte dell’acqua consumata (circa il cinquantaquattro per cento secondo dati dell’Anbi riportati in un comunicato del 2022 dal Centro italiano per la riqualificazione fluviale, Cirf) e quindi è questo uno dei settori in cui bisognerebbe operare per cercare di ridurre i consumi. «I diversi tipi di agricoltura non hanno lo stesso impatto ambientale. I fondi pubblici destinati al settore [come quelli legati alla politica agricola comune dell’Unione Europea] potrebbero essere una leva per indirizzare l’agricoltura verso un modello che abbia bisogno di meno acqua, ma non è quello che è accaduto finora. In mancanza di un intervento pubblico chi fa agricoltura con un sistema più rispettoso dell’ambiente rimarrà una minoranza, mentre gli altri continueranno a privilegiare modelli agricoli che puntano soprattutto sulla quantità» aggiunge Garbarino.
L’Anbi e la Coldiretti difendono l’idea di creare tanti bacini sparsi sul territorio senza uso di cemento per conservare l’acqua piovana che altrimenti verrebbe dispersa e chiedono che i lavori vengano sbloccati al più presto. Di diverso avviso il Cirf che, in un comunicato del 5 luglio 2022, afferma che l’acqua conservata negli invasi sarebbe soggetta ad alti tassi di evaporazione e potrebbe anche diventare insalubre; il modo migliore per conservarla e non “disperderla” sarebbe permetterle di raggiungere in modo controllato le falde.
Il piano invasi non convince nemmeno Erica Rodari del Forum italiano dei movimenti per l’acqua: «Senza pioggia non si riesce a capire come verrebbero riempiti gli invasi. Ricorrere alle falde o ai corsi d’acqua sarebbe una scelta sbagliata, visto che si tratta di ambienti già in sofferenza per la siccità». È il caso di notare che questo è uno degli argomenti che hanno portato alle mobilitazioni in Francia contro la costruzione dei grandi bacini (l’ultima a Sainte-Soline del 25 marzo), per i quali è prevista l’idea di ricorrere al prelievo di acqua dalle falde, contando sulla loro capacità di ricaricarsi grazie alle piogge.
L’idea di recuperare l’acqua piovana in altri contesti non è però da scartare, come ci spiega ancora Rodari: «Nelle città in cui il suolo è stato impermeabilizzato dal cemento e dall’asfalto un sistema di recupero è una buona idea: permetterebbe di avere a disposizione acqua da destinare a scopi per cui non serve l’acqua potabile e limiterebbe i danni delle precipitazioni violente, ormai non più rare, e permetterebbe di non affaticare i depuratori. Occorrerebbe anche riusare le acque reflue dopo il passaggio per i depuratori, magari per l’irrigazione».
L’idea è usare il più possibile l’acqua che si ha a disposizione, in chiara antitesi rispetto al sistema attuale che contempla solo l’uso di acqua potabile. «Già in passato, anche in zone non caratterizzate da scarsezza d’acqua, si poneva il problema della mancanza di acqua potabile proprio perché questa viene sprecata. In Italia non esiste, al contrario di quanto avviene in altri paesi come la Germania, un sistema duale che separi l’acqua potabile da quella non potabile, adoperabile, per esempio, per gli scarichi. Il Pnrr era un’occasione per introdurre questo sistema anche nel nostro paese, ma ciò non è avvenuto» aggiunge Rodari.
Si potrebbe obiettare che introdurre la rete duale comporterebbe dei costi elevati per la collettività. «Certo che si tratta di lavori costosi – ribatte –, ma è costoso anche dover indennizzare ogni anno gli agricoltori che perdono il raccolto. Bisognerebbe partire almeno dalle case di nuova costruzione, anche se in ogni caso occorre avere una rete sul territorio per permettere il funzionamento di questo sistema».
In un documento dello scorso giugno il Forum italiano dei movimenti per l’acqua evidenzia anche l’alta quantità di acqua che, una volta immessa negli acquedotti, viene dispersa per le perdite presenti nella rete e chiede un intervento di estese riparazioni, stimando un costo di dieci miliardi di euro. Vengono chiamate in causa direttamente le grandi aziende che si occupano anche di gestire l’acqua in diverse zone dell’Italia centro-settentrionale (Iren, Hera, A2A e Acea), accusate di aver realizzato negli ultimi anni dei profitti notevoli (con relativi dividendi per gli azionisti) senza aver investito a sufficienza nella rete idrica. «Non serve un commissario che faccia delle nuove grandi opere. La vera grande opera contro la siccità è la riduzione delle perdite. Il problema idrico intreccia temi diversi, bisognerebbe iniziare ad affrontare le questioni che sono ormai chiare», conclude Rodari. La nomina di un commissario sembra rimandare a un orizzonte emergenziale che però è ormai sempre più difficile da giustificare, come ha riconosciuto anche il ministro del mare e della protezione civile Nello Musumeci in un’intervista del 19 marzo al Messaggero, sostenendo che è ormai necessario pensare a delle soluzioni strutturali. In questo senso, il Forum dei movimenti per l’acqua chiede da oltre dieci anni, in seguito al referendum del giugno 2011, la ripubblicizzazione dei servizi idrici e critica la diffusione di società grandi come quelle citate poco fa che coprono con i loro servizi vasti territori.
Rimane sul tavolo, anche se non sempre esplicitata, la questione di come si prendono le decisioni sull’uso dell’acqua. La presenza di istituzioni pubbliche come i comuni all’interno dell’azionariato delle società che gestiscono i servizi idrici non sembra essere una garanzia sufficiente per tutelare gli interessi della collettività, anche a causa del peso che gli azionisti privati hanno nei consigli di amministrazione. L’introduzione dei rubinetti e dell’acqua corrente nelle case della parte più ricca del mondo ha portato diversi vantaggi, ma forse ha contribuito ad allontanare le comunità dalla necessità di gestire l’acqua in modo collettivo, rendendo quindi più difficile la ricerca di soluzioni per i momenti di siccità che non siano legate a una dimensione emergenziale. (alessandro stoppoloni)
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