Dal n° 52 – Gennaio 2013 di Napoli Monitor
Quest’anno collaboro con i progetti contro la dispersione scolastica, ancora. Progetti che, al di là della loro vocazione inclusiva, non (si) nascondono il fatto che anch’essi saranno, ancora, escludenti, per una parte dei ragazzi e delle ragazze coinvolgibili. Una dimensione organizzativa, emotiva e cognitiva difficile da contenere.
La memoria va, attraversando quindici anni ormai di “carriera”, ai ragazzi che sono stati esclusi dai progetti di inclusione scolastica e sociale ai quali ho partecipato, alla fatica e al dolore di contenere noi stessi questa realtà.
Non parlo solo di quelli che anche dopo le “nostre” scuole sono tornati nei loro copioni esistenziali, dopo un anno o due di aria; che, anche se hanno costruito qualcosa dentro di loro, questo qualcosa non è evidentemente diventato risorsa sufficiente per la libertà, intesa come opportunità di scelta tra opzioni diverse. Penso soprattutto alle storie dei ragazzi che abbiamo “bocciato” (al di là delle nostre perifrasi, così sarà stata, da loro, vissuta l’esperienza) perché troppo incongrui con la nostra offerta. Fu lunga la vicenda riflessiva sull’onnipotenza, quella presunzione di potere tenere dentro tutti, perché grandi eravamo noi e per un periodo tali, onnipotenti, ci eravamo sembrati.
Ricordo Salvatore, per esempio, al quale in particolare due di noi ci affezionammo. Era, Salvatore, sgrammaticato in tutto, come quegli oggetti o quelle costruzioni di carte o sabbia, che come li sposti si dissolvono. Eppure quel suo aggirarsi, come facevano i protocani nei pressi degli accampamenti umani in attesa di qualche cibo, intorno al nostro accampamento scuola (ma voleva venire in orari solitari, non voleva esser visto, commentato, giudicato dai suoi pari) altrettanto attraeva noi nella sua orbita. Fu forse il nostro esperimento apicale per un’offerta su misura, al di fuori d’ogni possibile misura scolastica che provasse a rispondere alle sua richieste, frammentarie smozzicate e sempre rimangiate per un rifiuto totale. Ma, lo stesso, Salvatore se ne andò verso il suo destino.
E ricordo Salvatore, terrificante distruttore, che pure seguimmo senza abbandonarlo mai fino all’esame, accompagnandolo anche al catechismo; tanto diventammo prossimi alla sua quotidianità che la madre, senza che mi scomponessi o meravigliassi, mi chiese una volta di stare una mezzoretta vicino alla sua bancarella, che lei doveva andare a fare un servizio. La vita di Salvatore è rimasta racchiusa nei meandri senza sbocchi dei suoi copioni esistenziali, fino a oggi, dieci anni dopo. Eppure lo tenemmo dentro.
E ricordo Salvatore, con la sua incontenibilità, la sua angoscia del nanismo e il suo Labrador che lui accudiva meglio dell’amico degli animali – il cane che mi leccava tutto quanto e io tenevo dentro anche le leccate del cane – la sua passione per le Ferrari, il suo incaponirsi a disegnarle; ricordo il nostro orgoglio quando dopo la terza media gli trovammo un posto regolare di meccanico regolare… Ora anche lui continua il suo viaggio nella sua vita già scritta e già prescritta, per tutto il suo futuro, da registi molto più bravi di noi. Ancora ricordo Salvatore, che amava la poesia, che aveva seguito il cugino nella speranza di un’adozione presso la nostra scuola, che scassava tutto, dentro e fuori e magari picchiava i professori, storie terribili di famiglia… eppure ce lo tenemmo dentro, ma ora gira l’Italia in istituti di pena.
Furono alcune delle nostre memorabili e improponibili sfide tra la misurabilità necessaria a ogni progetto e l’incommensurabilità ineliminabile di ogni singolarità. Furono la nostra scelta di non misurare, non comparare, non targettare: ognuno era una storia a sé e ognuno parlava un po’ di noi. Una scelta, ci ha detto il tempo, che quasi mai è servita, se ciò che segue e avvolge i progetti e gli squarci di vita di alcuni ragazzi e ragazze è poi la solitudine istituzionale, barlumi avvolti dal buio. Per loro non c’è futuro se non come replica eterna del loro presente: la capacità di immaginare un altro possibile a loro non è data… o forse c’è anche la loro scelta, una cosa che non riusciamo ancora a comprendere.
Nonostante questo improvvido eroismo, a decine fummo costretti a escludere e solo col tempo capimmo che tra il dolore per queste esclusioni e la messa in scena del nostro narcisismo c’era un legame indistricabile. Anche gli esclusi, comunque, non furono mai abbandonati, grazie al lavoro di strada, e per quanto labile e alla fine impotente un legame debole fu mantenuto; un legame mai considerato degno di evolvere istituzionalmente. Feci una volta una statistica: anche dopo anni, tutti i ragazzi, tranne uno, continuavano a salutarci e il saluto è il primo segno del riconoscimento. E del resto anche Salvatore, quello che non salutava, ora ci obbliga a prendere il caffè al suo bar a salita Tarsia. Io non prendo quasi mai caffè, ma lui se no s’offende.
Le esperienze di questi anni, e speriamo la saggezza dei progettisti delle scuole che hanno vinto il nuovo bando contro la dispersione, rivelano che, anche laddove è inevitabile che i progetti puntino su alcuni ed espellano altri, basandosi su criteri di selezione per congruità – altamente ipotetici, al di là di tutte le illusioni misurabiliste delle vite – escludendo quelli che chiamammo i “tropp out”, è necessario uno sportello a bassa, bassissima soglia, a soglia zero, in cui ciascuno possa essere accolto nella sua non predefinibile, non misurabile istanza, nella dichiarazione del suo bisogno e del suo progetto. Luoghi della presa di parola e della capacitazione, nella speranza che questa diventi poi pubblica, conoscenza comune perché allarga il nostro sapere sulla città.
È quello che abbiamo deciso di fare, con l’Associazione Quartieri Spagnoli, in questa nuova stagione di progetti contro la dispersione scolastica, di fronte a progetti che questa volta esplicitano la scelta di non essere per tutti, invitano a tener conto dei limiti delle risorse, alludono alla necessità del benchmark(obiettivi predefiniti su cui misurare la qualità delle azioni) e del successo rispetto agli indicatori europei. Molto, penso, sul piano metodologico e pratico, ci sarebbe da dire sulla miseria – pure necessaria – di questa impostazione, sull’uso di questa lingua come un linguaggio ormai naturalizzato, che ignora la storia della sua costruzione convenzionale e niente affatto realista. Molto ci sarebbe da dire sulla sua natura ideologica. Sarebbe un altro discorso. Qui voglio parlare della scelta di abitare la bassissima soglia del basso di Anna Stanco nel cuore dei Quartieri Spagnoli.
A furia di inquadrare come bersagli le persone, di osservarle come pezzi del puzzle delle offerte, nella loro “capacità passiva” di adeguarsi, ci si dimentica delle persone. Il basso a bassa soglia è invece un andirivieni di donne, ragazzi e ragazze, uomini grandi, vecchi, immigrati d’ogni latitudine, qualche volta chiamati, più spesso di loro spontanea volontà. Solo in quel luogo e in quella relazione interlocutoria è possibile ad alcuni interrompere la loro storia di stigmatizzati che chiedono qualcosa con gesti, parole e ruoli degli stigmatizzati, unici concessi in un paradossale gioco del riconoscimento.
Nel basso passano tutti gli “uno” irriducibili a qualunque etichetta. Che succede a questi uno che stanno fuori dai target? Chi sono? Arrivano due ragazzi dominicani, accompagnati dalla mamma solerte e affettuosa. Vogliono fare sport; uno, Salvatore, il pugile e l’altro, Salvatore, l’atleta, i 100 metri; prendigli il tempo, faccio rivolgendomi al pugile; misurate 100 metri e col cronometro il tempo… Il giorno dopo: professore, ci mette nove secondi. Mi commuovono, abituato alle manie di grandezza dei ragazzi nativi e penso che è giusto dargli una chance, spingo su qualche assessorato, mi chiedono nome data di nascita codice fiscale e io con loro attendo ancora una risposta, tre mesi sono lunghi da aspettare.
Entrano ragazzini che chiedono: “Ma quando incomincia il doposcuola?”, che sarebbe l’educativa territoriale, per fare i compiti o fare sport. Mentre stiamo parlando di questo con loro, entra una donna anziana che chiede ad Anna se può fare qualche cosa per la casa, per avere una casa in affitto. Entrano ragazzi grandi (ventenni?) alle prese con paure e problemi giudiziari, accompagnati da ragazzi più piccoli in palese e magari inconsapevole apprendistato, che chiedono cose le più disparate, lavoro, ritorno a scuola, aiuto con le assistenti sociali e mi pare che molti fanno la stessa domanda con mille parole diverse: ma posso scappare da questo sentiero? Non sanno, molti, né dove né come andare, conficcati in una vita che non so se accettano o scelgono. Mi viene in mente mio padre, 1916, ancora lucido, quando mi parla della sua vita fino agli anni Cinquanta: lui non ha mai scelto, dice, ma non si sentiva oppresso o negato nella sua libertà; per lui, semplicemente, non esistevano alternative, c’era una sola strada, senza bivi.
Entrano ragazzini più piccoli, vogliono cambiare scuola. Perché? chiedo, ormai da anni non più ingenuamente, conoscendo la risposta: voglio stare col compagno mio. Ne ho visti un sacco così: hanno bisogno della compagnia per poter replicare anche nella scuola i loro piccoli modelli di vita: chiacchierare, spettegolare le ragazze, per confermare e rinforzare tutta la loro enciclopedia valoriale, attraversando indifferenti la scuola e le prediche dei professori, i progetti per la legalità e per una maternità consapevole e rimandata, colonizzare bagni, corridoi e ultimi banchi. Ingenui, ci vengono a chiedere come un impermeabile per il loro viaggio scolastico, un paese che devono per forza attraversare per tornare in patria, tre o quattro anni dopo.
Le mamme, quante mamme, quasi mai un padre. In genere vengono a chiedere protezione per i loro figli. Sono loro, in questo caso, a chiederci di rendere i ragazzi impermeabili al quartiere e ai loro cattivi compagni; ci chiedono di metterli o toglierli in o da una scuola, in base al criterio se la scuola è buona o è malamente per i ragazzi che la frequentano. Sono, penso, tali e quali a tanti genitori borghesi che conosco, i quali inseguono la scuola buona, dove, parametro minimo, non ci stanno i fetenti: per entrambi la scuola è un paese sconosciuto, la replica della loro esperienza o immagine di trenta, quaranta anni addietro.
Poi ci stanno i cronici, famiglie che seguo o conosco da quindici anni. Entra Salvatore, ragazzo nero adottato, uno e ottanta, penso, per cento chili ugualmente distribuiti tra muscoli e pancia, accompagnato dalla mamma. Non dice una parola e non andrebbe mai a scuola, ma se deve andarci che sia almeno una dove può stare zitto con compagni e professori. Lui chiede solo che ci sia un educatore sempre al suo fianco, è l’unico bisogno educativo che c’ha. Dove lo metti là lo trovi, anzi non lo trovi, che se ne va subito da scuola.
Un giorno entra Salvatore, quaranta cinquanta anni, vuole imparare a leggere e a scrivere e mi chiede una mano. Leggiamo su un vecchio improponibile libro di scuola media a cui lui è affezionatissimo, un linguaggio semplice come lo era quello di tanti anni fa, fatto di parole assolutamente inesistenti nella vita reale, ma a cui il sistema della lingua letteraria nazionale aveva, insieme ai diminutivi, attribuito lo stigma della semplicità. Mi viene detto che forse vuole dedicarsi a lettura e scrittura perché spera di essere distratto dal demone del gioco compulsivo; lui, invece, mi confida che vuole imparare a leggere e scrivere perché vuole imparare a chattare. La cosa straordinaria è che mentre io penso a proporgli di leggere e scrivere usando direttamente il suo computer, lui mi propone di usare comunque il libro e mi propone un approccio lineare tipico dell’alfabetizzazione a scuola. La scuola, penso, è stata così importante, che si è impossessata dell’immaginario anche di chi non l’ha conosciuta e comunque, se vogliono imparare qualcosa non riescono a immaginarsi che a scuola.
Una scuola per tutti e per ciascuno, penso, ma forse non ci rendiamo conto quanti “uno” siano i ciascuno. I promossi, gli inclusi nei progetti diventano comunque una “classe”, un insieme omogeneo o molto tale. Gli esclusi, se poi ci stai vicino, se li stai a sèntere, sono sempre “uno”. Se è vero che nessun progetto, nessuna istituzione può prescindere da una riduzione del multiforme e del polimorfo, cosa fare con gli “uno” né misurabili né comparabili? Ma ho visto donne giovani, poco più che ventenni, già mamme a tempo pieno, con cui parlo tra il voi, il lei e il tu e loro anche con me; ordinate, composte, che vogliono fare la scuola serale, allora le accompagno, a toccare con mano quello che le aspetta. Loro pongono quesiti in merito all’armonizzazione tra vita e scuola, cura dei figli e cura di sé, restare nel presente e immaginare un po’ di futuro. Ci sono, mi pare, un sacco di politiche sulle pari opportunità e sull’accordo tra vita e lavoro, casa e carriera. A me sembra un diritto elementare, quello di andare magari tre volte a settimane. Ma quasi sempre al diritto si risponde con un sorriso caritatevole: vediamo che si può fare, e la nostra democrazia risorge ogni giorno, in ogni nascente relazione, tradendo i diritti e consolidando la collusività. (salvatore pirozzi)
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