«Ah, che gente noiosa!». Valeria non ha alcuna intenzione di preoccuparsi per le notizie che giungono da Brasilia, dove una folla golpista ha assaltato, vandalizzato e depredato le sedi dei tre poteri della Repubblica brasiliana: il Congresso, il Palazzo del governo e la sede della Corte suprema. In Brasile gennaio è periodo di ferie. Dopo quindici giorni ininterrotti di pioggia a Belo Horizonte, con temperature nettamente più basse rispetto alla media stagionale, Valeria, impiegata contabile in una Ong che promuove la lettura nelle periferie urbane dello stato di Minas Gerais attraverso la creazione di biblioteche comunitarie, ha percorso quindici ore di strade disastrate per godersi le vacanze con la famiglia a Cumuruxatiba.
Eppure anche in questa località balneare del sud di Bahia, sulle cui spiagge si dice abbiano attraccato per la prima volta i portoghesi al seguito di Cabral, l’atmosfera che si respira il giorno successivo alla “Capitol Hill tropicale” è di apprensione. Un temporale notturno ha fatto saltare l’energia elettrica in tutto il villaggio di pescatori convertitosi al turismo, ma non appena vengono ripristinati i collegamenti e le connessioni wi-fi, si percepisce chiaramente che il principale tema di conversazione tra le persone al lido Porto-Belo è il delirio collettivo del giorno precedente. I commenti alle notizie e le notifiche dei gruppi Whatsapp corrono di tavolo in tavolo, intervallati solo da sorsi di birra o acqua di cocco, nella brezza marina sotto l’ombra degli alberi di amendoeiras.
Giacché, nonostante gli sforzi e gli orrori, i quattro anni di bolsonarismo al potere non sono bastati a depredare e sottomettere in pieno le istituzioni della democrazia brasiliana, i golpisti hanno fatto il carnevale della distruzione degli edifici che la simbolizzano. «È assurdo! Hanno danneggiato opere di immenso valore: un quadro di Augusto Cavalcanti è stato tagliato in più punti, così come un’opera di Portinari; il Muro Escultório dell’artista Athos Bulcão è stato forato; l’orologio a pendolo che Don João VI portò con sé quando si trasferì con l’aristocrazia portoghese in fuga dall’invasione napoleonica è stato distrutto… ma “il bastone che batte Francisco dovrebbe battere anche Chico”! Se fossero stati professori o manifestanti di sinistra, la polizia militare non avrebbe pensato due volte a ricorrere a manganellate e proiettili di gomma. E invece sono tutti una banda di safados!», afferma Fernando, insegnante di letteratura alle superiori in un rinomato collegio privato a Belo Horizonte, quasi alla pensione.
È come se le forze di polizia e l’esercito avessero steso un tappeto rosso ai circa cinquemila manifestanti giunti a Brasilia che non riconoscono la vittoria elettorale del presidente Lula. Da circa due mesi si erano accampati fuori le mura dei quartieri generali dell’esercito nelle principali città del paese, per protestare contro una supposta e mai dimostrata frode elettorale. Chiedendo a chiare lettere l’intervento dell’esercito – ovvero un colpo di stato – hanno prodotto una escalation che, sebbene non abbia mai avuto alcuna possibilità di vittoria, ha portato al più violento tentativo di sovvertimento dell’ordine democratico dal 1964 a oggi.
I segnali erano largamente prevedibili. Attraverso il linguaggio in codice “Festa di Selma” – allusione a “Selva”, una forma di saluto comune tra i militari – e l’hashtag “brazilianspring” lanciato dallo stratega dell’internazionale neofascista Steve Bannon, da giorni circolavano nelle reti sociali chiamate all’assalto dei Palazzi.
Omissioni e connivenze degli apparati di sicurezza sono state evidenti. Alle quindici la folla bolsonarista aveva raggiunto con facilità la piazza dei Tre Poteri. Alle sedici e trenta chi avesse voluto aggregarsi non avrebbe incontrato alcun ostacolo da parte delle forze di polizia che assistevano compiaciute. Il cammino era così semplice che c’erano venditori ambulanti con carrelli di acqua e zucchero a velo sulla rampa del Congresso. All’interno e all’esterno degli edifici, polizia e militari simpatizzavano con i manifestanti dando informazioni e scattando selfie. È tutto filmato dagli stessi bolsonaristi e dal lavoro di giornalisti. Un reportage del giornale O Globo mostra come la barriera di contenzione fosse stata rimossa poco prima dell’arrivo dei golpisti e come gli stessi sembrava fossero scortati all’interno della spianata.
Solo dopo la firma del decreto di Intervento Federale per la sicurezza del Distretto Federale – stato la cui capitale è Brasilia – da parte di Lula, si è cominciato a ristabilire l’ordine pubblico. Fino a quel momento esso era di competenza statuale, ovvero del governatore Ibaneis Rocha, il quale, a cose fatte, si è precipitato a registrare un videomessaggio ammettendo falle e chiedendo scuse ufficiali, puntualmente rigettate da Lula. Ma è sul capo della polizia militare Fabio Augusto Vieira e in particolare sul segretario per la sicurezza statuale Anderson Torres che ricadono i maggiori sospetti di sabotaggio dell’apparato repressivo. Entrambi alleati di Bolsonaro, così come lo stesso Rocha, ma con Torres nel ruolo di spicco di ex ministro della giustizia del suo governo. In conseguenza di questa complicità golpista, Rocha è stato sospeso per novanta giorni dall’incarico, mentre su Viera e Torres pende un mandato di cattura emesso con parole severe dal giudice della Corte suprema e presidente del tribunale elettorale Alexandre de Moraes nell’ambito di un nuovo capitolo dell’inchiesta da lui condotta contro la disseminazione di notizie false a sostegno delle tesi più bizzarre che inquinano la società brasiliana in una misura senza precedenti. Altamente sospetto risulta essere il fatto che il giorno dell’invasione di Brasilia, Torres si trovasse in vacanza anticipata a Miami. Da un resoconto dei servizi segreti pare che lì si sia incontrato con l’ex presidente Bolsonaro, anche lui rifugiatosi in Florida insieme alla famiglia pochi giorni prima che Lula assumesse la presidenza.
La reazione delle istituzioni è stata compatta. A parte alcune figure dichiaratamente bolsonariste, tutto l’arco parlamentare ha condannato i fatti di Brasilia. Il nuovo ministro della giustizia Flavio Dino ha dichiarato che i responsabili, i complici, i mandanti e i finanziatori degli atti antidemocratici saranno individuati e puniti con pene esemplari. A oggi, circa millecinquecento persone sono già state arrestate. Nel clamore mediatico si parla di atti di terrorismo, ma secondo alcuni analisti sarebbe più adeguato inquadrare le fattispecie sotto il novero di crimini contro lo stato democratico di diritto, riservando i crimini di terrorismo agli atti di sabotaggio delle linee elettriche, delle raffinerie di petrolio e per i blocchi stradali, che pure sono avvenuti in alcune località del paese in questi giorni di caos.
Sembra che si sia raggiunto un punto di non ritorno nella tolleranza all’insubordinazione politica. Persino il nuovo ministro della difesa José Mucio, nominato dallo stesso Lula, è oggetto di aspre critiche per le sue posizioni fino a quel momento concilianti. Alcuni paventano le sue dimissioni. Tuttavia, per far fronte alla trance autoritaria bolsonarista che ha catturato una parte non indifferente della società brasiliana, non basterà un semplice cambio dei vertici negli apparati di sicurezza. Daniel Hirata, coordinatore del gruppo di studio sulle nuove illegalità dell’Università federale Fluminense, in un’intervista al portale Ponte, sostiene che, data la politicizzazione di estrema destra delle forze di sicurezza del paese, solo la partecipazione popolare della società e la direzione di cariche civili può contenere il bolsonarismo, sia nell’esercito che nella polizia militare, e far sì che rispettino i poteri eletti.
Se è vero che il progetto Bolsonaro è un piano retrogrado, necropolitico e coloniale delle élite imprenditoriali, militari ed evangeliche, queste dovranno essere responsabilizzate senza alcuna amnistia, come invocano le pur presenti piazze democratiche del paese, a dispetto della merce più a buon mercato della politica brasiliana, ovvero l’impunità. Il significante Bolsonaro è un fenomeno popolare variegato, interclassista e interrazziale che, come ogni fascismo, investe molteplici piani del desiderio di rottura (falsamente) anti-sistemica, di manutenzione dei privilegi, di revanche materialista, libido frustrata, antagonismo all’altrui godimento. Un fenomeno contro cui, tuttavia, la maggioranza degli elettori brasiliani ha resistito eleggendo per la terza volta Lula che, dalle ceneri delle vicende giudiziarie, ha saputo risorgere aggregando intorno al suo populismo progressista un ampio fronte democratico.
Eppure, la vittoria di Lula è sicuramente una conseguenza del bolsonarismo e avviene più per mancanza di opzioni percorribili che per convinzione; soprattutto, per molti, investe un desiderio di ritorno alla normalità contro la stanchezza dell’iper-stimolazione dell’assurdo rappresentata da Bolsonaro, che tuttavia sarà difficilmente raggiungibile dinanzi a uno scenario profondamente mutato rispetto ai primi due mandati di Lula. Ciononostante, la positiva conservazione che pur rappresenta la vittoria di papai Lula nel preservare il terreno democratico, può favorire l’apertura di brecce.
I segnali ci sono. La potenza selvaggia e meticcia splendidamente messa in scena il giorno della cerimonia per il suo insediamento, quando in risposta al rifiuto del passaggio della fascia presidenziale da parte di Bolsonaro si è scelto di farla passare di mano in mano a figure rappresentative del popolo brasiliano – un operaio metalmeccanico, un disabile, una donna nera addetta al riciclaggio, un influencer, un ragazzino nero, il leader indigeno Raoni Metuktire, un professore, una cuoca, un artigiano – fa il paio con l’euforia per la nomina di alcuni ministri in aree chiave che segnano una discontinuità radicale rispetto al precedente governo: Marina Silva a capo del ministero dell’ambiente, Silvio Almeida al ministero dei diritti umani e della cittadinanza, Anielle Franco, sorella di Marielle, a capo del ministero per l’uguaglianza razziale. Infine, la leader indigena Sonja Guajajara entra nella storia in quanto prima ministra indigena del Brasile, al vertice dell’inedito e a sua volta storico ministero dei popoli indigeni. Nel Palazzo del Planalto, sede dell’esecutivo, in quello stesso salone nobile devastato pochi giorni prima dai bolsonaristi, una cerimonia di insediamento congiunta a quella per la ministra Anielle Franco, ha celebrato attraverso danze e canti dei popoli originari e afro-discendenti quel “futuro ancestrale” così spesso minacciato nel recente passato.
Che l’euforia si trasformi in effettività contro quella che spesso si riduce a politica del simbolo e della rappresentazione è, nella tempesta del presente non solo brasiliano, una missione ancor più necessaria. (giuseppe orlandini)
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