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13 Ottobre 2020

Una strada per Antonia Bernardini, vittima della violenza manicomiale

Monitor
(disegno di cristina moccia)

«Ci legavano come Cristo in Croce. Per noi piangevano anche i mattoni». Sono le ultime parole pronunciate da Antonia Bernardini, prima di morire per le ustioni riportate a seguito dell’incendio del letto di contenzione sul quale era legata da quarantatré giorni, nel manicomio giudiziario di Pozzuoli, dove era internata da quindici mesi a seguito di un banale diverbio, in attesa di un processo che non si svolgerà mai. A quarantacinque anni di distanza da quel tragico episodio, in occasione della giornata mondiale sulla salute mentale, sabato 10 ottobre, la Cooperativa sociale Lazzarelle, che lavora con una torrefazione in quella stessa struttura puteolana oggi trasformata in carcere femminile, ha lanciato una petizione per chiedere che venga dedicata a questa donna una strada della città di Napoli, dove Antonia è morta. A sostenere l’appello, che dal 10 sarà aperto a chi vorrà aderire, insieme alla figlia di Antonia Bernardini, venticinque donne esponenti del mondo della società civile, dell’associazionismo e dei servizi della salute mentale, dell’università, dell’attivismo per i diritti umani e e dei movimenti femministi. È stato inviata anche una lettera al sindaco di Napoli, perché l’amministrazione comunale accolga e sostenga questa iniziativa, dandole immediata concretezza.

La morte della Bernardini è diventata il simbolo della lotta a quelle pratiche di violenza, come la contenzione fisica, a cui non solo si ricorreva nei manicomi e negli Opg, ma che ancora sono parte dell’intervento psichiatrico nei reparti ospedalieri e durante i Tso. Così, Elena Casetto, una giovane donna di diciannove anni, è morta il 13 agosto 2019 nel reparto di psichiatrica dell’Ospedale di Bergamo, per le fiamme che hanno avvolto il letto sul quale era stata legata. Una vicenda che ha drammaticamente riproposto quanto accaduto ad Antonia Bernardini, che due ricercatori indipendenti napoletani, Dario Stefano Dell’Aquila e Antonio Esposito, hanno dettagliatamente ricostruito nel libro Storia di Antonia. Viaggio al termine di un manicomio (Sensibili alle foglie, 2017). Proprio nel corso delle presentazioni di questo volume, è nata l’idea di dedicare una strada ad Antonia Bernardini: «Non esiste alcun monumento, strada, spazio pubblico dedicato ad una vittima della violenza psichiatrica. Eppure, e non solo nei manicomi, sono migliaia le persone che hanno dovuto affrontare pratiche che nulla hanno a che fare con la cura, come l’essere legati mani e piedi, per giorni, a un letto», raccontano Dell’Aquila e Esposito, tra i sostenitori dell’appello oggi promosso da Lazzarelle. «Antonia, come scrisse Luigi Pintor, è una donna che “ha avuto lo Stato tutto addosso”, ed è rimasta vittima di un dispositivo psichiatrico-giudiziario che tutt’oggi sopravvive, nonostante il superamento dei manicomi, sia civili che giudiziari. Bisogna ancora continuare una lotta contro certe pratiche disumane dell’intervento psichiatrico che, come dimostrano le storie di Elena Casetto, Francesco Mastrogiovanni, Andrea Soldi e tanti altri, continuano drammaticamente a riprodursi. Le contenzioni, fisica, chimica e ambientale, rappresentano una barbarie della medicina, e non è accettabile che la cura della salute mentale possa ancora tollerarle, per questo assume una particolare importanza l’iniziativa promossa da Lazzarelle, tra l’altro in un giorno come quello dedicato alla salute mentale».

«Complessivamente, fin dal suo arresto, nella vicenda della Bernardini c’è anche una specificità di genere, quella di Antonia è anche una storia di violenza contro le donne», spiega la presidente di Lazzarelle, Imma Carpiniello. «Noi che lavoriamo con le donne detenute nel luogo dove Antonia era internata, conosciamo bene il significato che, per una donna, assumono la privazione della libertà, la cesura delle relazioni e degli affetti, le costrizioni del carcere. Dedicarle uno spazio pubblico non potrà ridare ad Antonia e a sua figlia quanto è stato loro strappato, ma potrà rappresentare un atto minimo di giustizia, servirà a fare memoria, restituirà a quella morte una goccia di splendore per provare a costruire un futuro diverso. Sarebbe importante se Napoli volesse diventare una città libera dalla contenzione».

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