Sin da Barboni (1997) Pippo Delbono ha messo in scena un teatro della diversità che è il fulcro della sua esperienza poetica e umana. In quel lavoro l’autore attore e regista ligure, portò per la prima volta in scena Bobo, un uomo sordomuto e analfabeta, rinchiuso per molti anni nel manicomio di Aversa, che nel tempo diventò il simbolo di una scena che si alimentava del rapporto e del “discorso dell’Altro”. La ricerca proseguì, nel 1998, con la messa in scena di Guerra, dove s’incontravano un clochard dai modi educati e Gianluca Ballarè, un giovane down allievo della madre di Delbono. Da questo lavoro, rappresentato anche in Palestina e in Israele, scaturì un film documentario molto apprezzato dalla critica.
Dal punto di vista drammaturgico il teatro di Delbono unisce forme espressive diverse (dalla musica alla danza, dal cinema alla poesia), ispirandosi sia al teatro orientale che allo sguardo visionario di Pina Bausch, la coreografa tedesca di cui fu grande ammiratore e, in qualche modo, allievo; la presenza di Bobo in scena in quasi tutti i suoi lavori, segnala la totale adesione dell’autore a una drammaturgia dove la finzione lascia il posto all’uomo colto nella sua verità e innocenza; significativo del suo sguardo che cerca di andare oltre ogni convenzione linguistica, è anche Sangue (2013), il documentario da lui diretto, premio Don Chisciotte al Festival di Locarno, che racconta dell’incontro tra due donne, sua madre, fervente cattolica, e Anna, moglie di Giovanni Senzani, il brigatista condannato a oltre venti anni di prigione.
Delbono è tornato a Napoli, al Teatro Bellini (dal 31 ottobre al 5 novembre) con Vangelo, con le musiche di Enzo Avitabile, andato per la prima volta in scena nel 2016 all’Argentina di Roma e anche a Zagabria, come lavoro musicale. Vangelo racconta del dialogo che egli instaura con sua madre (qualche tempo prima della sua morte) sulla religione e sulla parola di Cristo. L’autore e attore avanza dal fondo della sala, in platea, nel buio, recitando il Vangelo, mentre sulla scena hanno già preso posto un gruppo di attori vestiti in abiti eleganti che ascoltano un concerto di musica classica eseguito dall’orchestra del San Carlo. Delbono si rivolge alla madre sul letto di morte, e parla della sua assenza di fede e della sua indignazione verso una religiosità ipocrita che ha generato solo lotte di potere e tragedie nella vita degli uomini: «Io non credo madre in questo Dio dei martiri, dei roghi, dei kamikaze, della guerra. Preferisco il diavolo!» Parole che interrogano il sentimento del sacro in un mondo funestato da terrificanti atti criminali compiuti in nome di Dio.
Delbono, da buddista, vede in Cristo la figura che più di ogni altro nella storia dell’umanità ha incarnato l’amore degli uomini. Lo spirito vero della scrittura dovrebbe essere tutto nella libertà dell’amore e nella solidarietà tra gli umani, che invece sono ogni giorno respinti oltre i muri da una società che domina i corpi e non conosce pietas; non a caso, è la presenza ossessiva di un muro, che incombe minaccioso sul palcoscenico e sulla platea, forse l’emblema più forte di questo spettacolo, quasi a significare l’impossibilità di sentirsi liberi in un mondo sempre più simile a una prigione. Su questo muro scorreranno le immagini più drammatiche del nostro tempo: dalla vita dei migranti nei campi di mais alle onde di quel mare che ha inghiottito migliaia di uomini e donne in fuga dalle loro terre, alle tracce ancora visibili della strage di Castel Volturno, dove nel 2008 furono massacrati dai camorristi casalesi sei immigrati africani, sino alla iconografia religiosa della passione di Cristo. La lezione evangelica, per Delbono, può rivivere solo se incarna un comune sentire e si fa portatrice di un gesto di libertà e di pace.
L’elaborazione del lutto di Delbono passa attraverso questo sguardo, che considera essenziale il recupero della forza sonora della voce e della parola e anche della danza. Nel succedersi delle azioni – accompagnate dalle musiche di Avitabile, De André, Led Zeppelin, Schumann e di altri – la lezione evangelica è particolarmente viva in alcuni segni della messinscena: come quando gli attori evocano la condanna di Cristo gridando al microfono il nome di Barabba, o quando una ragazza da adultera, alludendo al Vangelo, viene crocefissa al muro anziché essere dilapidata. Un momento tra i più felici di questo spettacolo, in cui è chiara l’allusione alla violenza criminale degli uomini perpetrata in tutte le epoche nei confronti delle donne. Ma anche emblema di forme di violenza che colpiscono altre identità e culture; diversità simboleggiate qui da un giovane attore afgano che racconta la sua odissea e quella dei suoi amici (molti dei quali non ce l’hanno fatta) nel disperato tentativo di raggiungere su una piccola imbarcazione le nostre coste.
È un teatro contro l’apartheid interamente calato nel dramma dei nostri giorni, questo di Delbono. Dagli anni Ottanta, la sua scena ai limiti del teatro è incessantemente percorsa da profughi, barboni, disabili, rom, migranti: ombre che l’apparato ideologico e repressivo di ogni paese condanna a una feroce clandestinità e a una vita di stenti. Queste storie negate trovano nel suo teatro politico – nella migliore accezione del termine – una sorta di risarcimento alla loro umiliante condizione di separazione. Forse perché il teatro e la creatività in una società che continua a innalzare ignobili muri, costituiscono ancora l’ultima forma di civiltà in grado di resistere alla mercificazione di ogni valore. Tiepidi gli applausi del pubblico, che forse non si aspettava di assistere a uno spettacolo che costringe a guardarsi dentro e a mettere in discussione le nostre più consolidate certezze. (antonio grieco)
Leave a Reply