Testo e foto di Alessandra Mincone
Negli ultimi giorni di ottobre, a una sessantina di lavoratori di Lissone, in provincia di Monza, sono arrivate le comunicazioni di licenziamento collettivo da parte di Itala Project srl, per recessione consensuale del contratto di appalto con l’azienda Vefer, produttrice di poliuretani, i materiali prodotti per imbottire materassi, cuscini e divani marchiati made in Italy.
Il 2 novembre scorso, intorno alle sette del mattino, nei pressi del parco “Sandro Pertini” tra via Cazzaniga e via dei Martiri, si intravede un gruppetto di trenta lavoratori con un berretto rosso firmato SiCobas. Alle sette e trenta, il gruppo circoscrive l’area del magazzino, attraversando i quattro cancelli funzionanti da dove i tir entrano ed escono indisturbati, nonostante altri trenta lavoratori iscritti al sindacato Usi stazionino presso uno degli ingressi-merce con le loro bandiere. Quelli del SiCobas, contrariamente alle aspettative dei colleghi dell’Usi, puntano al cancello che utilizzano i dipendenti dell’ufficio amministrativo, da cui si accede a una porta che conduce al Reparto 50. È qui che la gran parte di loro si è occupata per anni della lavorazione e dell’imballaggio dei poliuretani; quindi come ogni mattina si recano alla loro postazione, senza troppo rimuginare sulle recenti limitazioni del nuovo governo in materia di occupazione delle proprietà private.
Dentro le mura della fabbrica si entra in fila indiana attraversando uno stretto corridoio che divide due reparti, ripetendo i cori lanciati dai delegati più grintosi. I lavoratori dichiarano di essere in assemblea permanente, ma non solo per i licenziamenti. A spingerli nelle fila del sindacato di base, era stato un malcontento esploso a giugno, quando gran parte degli assunti esterni fu lasciato in una cassa integrazione respinta dall’Inps. L’utilizzo della cassa “illegittima” come voce in busta paga, denunciano i rappresentanti sindacali, aveva già indotto a reclamare un tavolo di trattativa presso la prefettura di Monza per chiedere il pagamento completo delle mensilità, dimezzate fino a settembre, in mancanza di una effettiva riduzione della produttività.
Alle sette e cinquantacinque suona una campanella, simile a quella che nelle scuole richiama gli studenti dalla ricreazione, ma l’attività produttiva dei reparti adiacenti al 50 non può iniziare, in ragione dell’invasione dei licenziati nell’area del magazzino. Arriva una prima volante, due poliziotti entrano accompagnati dai delegati per assicurarsi che i presenti non autorizzati all’interno dello stabile non stiano compromettendo il funzionamento delle macchine. Poi giustificano la loro presenza in virtù precauzionale, brontolano qualcosa rispetto alle misure di sicurezza, mentre un tetto in plexiglass che sporge verso un’altra uscita gocciola visibilmente per le ultime piogge, e richiamano solo in ultimo, apertamente, l’intervento di ordine pubblico invocato dall’azienda, chiedendo le generalità a sindacalisti e solidali.
Un più palese tentativo di provocazione arriva da alcuni dipendenti diretti di Vefer. I responsabili dei reparti, chiamati dai lavoratori bengalesi e srilankesi “i capi”, non perdono tempo a insinuarsi contro gli ormai ex colleghi, magari speranzosi – come qualcuno vocifera – di poter lavorare a qualche ora di straordinario pagato fuori busta, in compensazione alla diminuzione di manodopera voluta dall’azienda.
Quando le Rsu dei confederali si allontanano, i lavoratori raccontano degli anni prestati in servizio, tra cooperative e consorzi. Tutti hanno maturato tra i dieci e i quindici, fino a venti anni di anzianità. Uno dei più anziani sa manovrare tutte le macchine del reparto, qualche volta ha anche fornito le istruzioni ai nuovi arrivati e sottolinea la pericolosità di alcune aree dove non ci si può avvicinare, per non rischiare di tagliarsi con le lame che servono a definire i pezzi di poliuretani. Questi pezzi vengono generati nel reparto “schiumaggio”, addetto alla fabbricazione della gomma sintetica in materia prima, dove ci sono forni in cui vengono mischiati tutti i materiali liquidi che poi devono lievitare. Dei presenti, in pochi hanno visto quel reparto; dicono che è il più pericoloso perché oltre a dover sollevare materiali pesantissimi, si lavora a contatto con sostante chimiche potenzialmente nocive. Il settore dove veniva impiegata la maggioranza dei lavoratori in lotta, è comunque usurante e necessita di misure di sicurezza particolarmente rigide. Quando il poliuretano è pronto per la lavorazione, si presenta in un blocco appiccicoso lungo decine di metri. Il macchinario che si utilizza per ridimensionare i blocchi in altezza, è di forma circolare e delimitato da una rete oltre la quale non ci si può sporgere. I blocchi pesano almeno ottanta-novanta chili e vengono riposti sul macchinario da quattro persone, poi un operaio attiva il computer che permette alla lama di assottigliare i blocchi con movimenti rotatori. Nel reparto 50 si lavoravano dai cento ai duecento blocchi al giorno. A volte i pezzi che si usano per l’imbottitura di materassi e divani devono essere incollati ad altre lastre, da quelle più dure alle più morbide, rispetto ai design richiesti dalle varie aziende che si occuperanno di rivendere il prodotto finito all’ingrosso. I materassi che invece sono destinati alle celle carcerarie, composti con materiali anti-incendio, una volta ridotti in piazze singole arriveranno direttamente all’ultima fase della catena di montaggio, l’imballaggio, senza passare per eventuali rifiniture di comodità.
L’azienda Vefer ha alle spalle quasi settant’anni di attività. Oltre alla lavorazione in tutte le sue fasi, è grazie alla produzione della materia prima, i poliuretani espansi, che dagli anni Ottanta vanta la posizione di leader nel settore a livello mondiale e collabora con le più grandi aziende chimiche d’Europa. Oggi Vefer detiene altri due impianti di produzione e distribuzione di poliuretano in Spagna. Il fatturato complessivo al 2021 era intorno agli ottanta milioni di euro. Quando i prodotti sono terminati vengono distribuiti a un costo che oscilla dagli ottocento ai mille e trecento euro per i grandi gruppi produttori come Alessanderx spa, anche se, come ammettono i lavoratori, per qualcuno che ne aveva fatto richiesta, tra i lavoratori, l’azienda ha applicato notevoli sconti, decurtando in busta paga solo un paio di centinaia di euro per materasso.
Intorno alle quindici, i lavoratori riposano sui blocchi di gomma, si confrontano su cosa dire agli agenti che subentreranno per dare il cambio ai due che stazionano in macchina fuori al cancello dalla mattina. I delegati sindacali, invece, si dirigono in auto verso la prefettura di Monza, dove usciranno solo intorno alle otto di sera. La trattativa, che doveva inizialmente comprendere i legali di Itala Project (per procrastinare la scadenza dell’appalto), si allarga all’amministratore delegato e al pool di avvocati della multinazionale. I sindacalisti, alla fine dell’incontro, concorderanno con i delegati di sospendere l’assemblea permanente dal cancello di via dei Martiri, perché l’azienda ha finalmente garantito che pagherà tutti gli arretrati salariali di settembre in breve tempo. I lavoratori si affrettano a recuperare le bandiere disposte agli angoli delle aiuole e sui segnali stradali del viale a doppio senso; c’è ancora un muletto che, in barba a ogni norma di sicurezza, carica e scarica della merce da un ingresso all’altro utilizzando il marciapiede della strada. Poi i lavoratori si danno appuntamento: dovranno verificare l’addebito del bonifico, per poi discutere di come presentare un piano di organizzazione che li faccia rientrare a lavoro, prima di cantare vittoria.
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