Si è tornato a parlare, nelle ultime settimane, con una certa frequenza, di quanto accade sul confine italo-francese. La voce dei migranti è passata velocemente in secondo piano, cedendo il posto a quella delle istituzioni e, in parte, dei solidali del presidio No Border. Erano stati proprio gli ospiti del centro della Croce Rossa in Val Roja, però, a riportare la questione al centro dell’attenzione, quando sabato scorso avevano deciso di raggiungere la scogliera dei Balzi Rossi per protestare contro le frontiere e per rivendicare condizioni di vita migliori nel campo. Le interviste che seguono nascono con l’intento di aggiungere un tassello al racconto mediatico in corso. Il lavoro non sarebbe stato possibile senza le traduzioni di Jackie e Nadim. I nomi delle persone citate sono stati cambiati a loro stessa tutela.
«Abbiamo deciso di protestare sugli scogli dei Balzi Rossi per provare a cambiare qualcosa. Quel giorno avevamo molta fame e abbiamo visto un volontario arrivare con delle buste. Pensavamo contenessero cibo. Quando abbiamo capito che non era così, ci siamo esasperati». Ahmed è arrivato in Italia dal Darfour e da circa due settimane vive al centro della Croce Rossa del Parco Roja, a Ventimiglia. Con oltre duecento suoi connazionali sudanesi è tra i migranti che sabato scorso hanno protestato per le condizioni di vita nella struttura di “accoglienza” del comune ligure. Ci incontriamo poco lontano dalla cittadina di confine, mentre in centro la polizia identifica e allontana i bianchi, soprattutto giovani in abiti sportivi, che parlano con i neri. Solo negli ultimi giorni, sono stati emessi trenta fogli di via da sedici comuni della provincia di Imperia per altrettante persone considerate vicine al movimento No Border.
Il complesso della Croce Rossa è composto da container vicino ai binari della ferrovia, destinati ai soli uomini adulti che non hanno fatto richiesta d’asilo in Italia perché intenzionati a valicare il confine. Gli ospiti presenti fino a ieri erano quasi il doppio rispetto alla capienza massima di trecentocinquanta persone, ma sono già iniziati i trasferimenti in comuni del sud, a distanza di sicurezza dal territorio francese. In realtà gli spostamenti forzati che i solidali chiamano deportazioni sono in corso da settimane, almeno nei confronti di chi viene convinto o, secondo altre fonti, costretto a fare domanda d’asilo in Italia. «Vengono allontanati dalla regione soprattutto i più ribelli, sette pullman sono già partiti. Sarebbe toccato anche a me, ma non c’era posto, allora mi hanno detto di arrangiarmi», racconta Ahmed. «Il centro della Croce Rossa è una prigione. Non tutti i giornalisti vengono fatti entrare. Comunque, quando arriva la stampa, si preparano pasti più abbondanti e si fa in modo che per l’occasione la struttura sembri più accogliente. Nelle mattine normali ti svegli con un solo pensiero: fare la fila per la colazione. Rimani in coda sotto il sole anche un’ora per un biscotto e un bicchiere d’acqua zuccherata con dentro il profumo del latte». Alcune persone, dice, hanno provato a convincere lui e i suoi amici a non protestare: prima cercando di minimizzare i problemi della struttura, poi offrendogli dei soldi: «Sono sudanesi, ma non so esattamente quale sia il loro lavoro. Li ho visti parlare in italiano con i mediatori del centro».
Mohammed, anche lui “ospite” della struttura, dice che i poliziotti presidiano all’esterno, ma durante i pasti entrano per controllare che nessuno si lamenti e che i migranti non creino problemi. «Una volta, in seguito a un litigio con un mediatore, la polizia è intervenuta su richiesta degli addetti del centro. Ha picchiato uno di noi colpendolo con un taser e quello è svenuto per terra. Lo hanno fatto portare via da un’ambulanza e da allora non sappiamo più dov’è».
Provo a contattare il comitato locale della Croce Rossa. Mi risponde il responsabile Walter Muscatello, che si riserva di non rispondere a nessuna delle mie domande. Mi invita a farmi autorizzare dalla prefettura di Imperia per una visita al campo e la conversazione finisce lì. Più tardi, incontro Saif, seduto sul muretto davanti alla chiesa delle Gianchette, un quartiere di Ventimiglia, dove dormono donne e famiglie con bambini. Intorno a noi le volanti della polizia cercano qualcosa che non va. Poco fa hanno identificato e fatto allontanare un gruppo di ragazzi che si erano fermati a chiacchierare con i gli africani. «Da quando sono arrivato alla Croce Rossa non ho mai dormito su un letto», racconta Saif. Oltre a soffrire di anemia, spiega, ha una malattia alle ossa per la quale ha bisogno di essere operato per la settima volta alle gambe. Gli domando perché non abbia chiesto aiuto ai medici della Asl che dovrebbero curare i migranti nel centro: «Non hanno niente per la pressione, figurati se possono risolvere i miei problemi…», risponde, laconico. Quando ci salutiamo, gli auguri di buona fortuna stonano con quello che ha appena detto: «Se rimango al centro, quest’inverno muoio».
Tornando in treno da Ventimiglia, guardo le spiagge della costa ligure affollate di turisti e ripenso ai volti che ho visto e alle parole che ho ascoltato. Facce, storie, rabbia e speranze appiattite dalla stampa di questi giorni in un unico termine abusato, migranti, e nelle sue combinazioni fisse: emergenza migranti, accoglienza migranti, migranti e terrorismo. Mi tornano in mente le parole di Ibrahim, una decina d’anni, occhi neri grandi, mentre gioca con il freno della sua bici davanti alla chiesa delle Gianchette, dove è arrivato, dice, partendo da solo dall’Eritrea. «Nel mio paese non c’era libertà, e allora sono andato in Sudan e poi in Egitto. Lì nemmeno ho trovato la libertà, e sono andato in Libia. La libertà non era nemmeno lì, e adesso sono in Italia, dove non ce l’ho. Finché non la trovo, non mi voglio fermare». (giulia beat)
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