Manca poco al fiume in piena che attraverserà Napoli. Si moltiplicano ovunque le adesioni. Per tanti che negli ultimi tempi si sono avvicinati ai gruppi in difesa di ambiente e salute sarà l’occasione per riconoscersi in migliaia d’altri e rafforzare lo slancio. Per coloro che fanno parte dei comitati storici consolidatisi sui fronti di quindici anni di lotte ambientali in Campania, questo è il momento a lungo atteso e che doveva arrivare. Il richiamo all’organizzazione si è insinuato nei ritmi delle città e dei paesi; assemblee, convegni e marce hanno lavorato negli interstizi per poi conquistare le strade, l’etere e la rete; la storia recente di questa regione, mistificata, abusata o negata finora, è stata narrata di nuovo, a più voci, nelle sue articolazioni sotterranee e nei suoi episodi di rivalsa, ristabilendo il valore sociale di quelle lotte che già da anni annunciavano verità difficili, compiti gravosi, la necessità di resistere per sopravvivere.
I moventi della generalizzazione dell’interesse civico rimandano direttamente a un’epidemia di paura e rabbia. Il timore della malattia e della morte si è saldato alla percezione di un paesaggio fuori controllo, mutante dalle radici sotterranee all’aria striata di nero, fino ai corpi e agli anfratti più privati. Esclusione dalle decisioni, espropriazione fattuale dei territori e contaminazione della basi vitali hanno alimentato il disprezzo verso i colpevoli e gli ignavi. Riconoscendo l’interdipendenza di natura e società, i movimenti ambientalisti campani stanno indicando contraddizioni profonde nell’attuale assetto sociale ed economico, caricandosi della responsabilità di affrontarle. La conseguente politicizzazione di tutti quei processi che organizzano la vita in comune, ha fatto della politica quell’ambito da reclamare per la cura degli spazi e delle persone contro l’interesse predatorio privato. Su queste basi, sono fondati i punti e le richieste condivise della piattaforma che si appresta a invadere Napoli.
I flussi incontrollati di rifiuti industriali, che dai luoghi produttivi del paese circolano verso le zone “sacrificabili”, sono il settore sommerso su cui è cresciuto un commercio capillare e trasversale, un patto malsano tra manager, politica e gruppi criminali. Numeri contradditori tra produzione e smaltimento degli scarti, procedure antiquate e facilmente falsificabili, l’incapacità o la non volontà della politica di far internalizzare i costi dell’inquinamento alle imprese, rendono la merce-rifiuto un lauto business per fermare il quale occorre da subito tracciare gli spostamenti, bloccare le transazioni criminali e comminare sanzioni effettive per gli illeciti ambientali. Le bonifiche possono avere senso solo se si interrompe lo smaltimento abusivo. Tali bonifiche, però, non devono trasformarsi in un’emergenza che diventi terreno di coltura per clientelismi e sacco delle risorse. Vanno inquadrate come un processo di risanamento più vasto del tessuto produttivo e sociale: effettuate sotto il controllo popolare, con la collaborazione delle realtà associative e in sintonia con la vocazione agricola del territorio. L’agricoltura campana, che soffre non per gli allarmi degli attivisti ma per l’assenza e colpevolezza dello stato, deve essere inclusa in un percorso di valorizzazione sociale che parta da un censimento dei terreni e delle falde inquinati, per riportare sul mercato gli operatori dei terreni sani e per iniziare nei luoghi compromessi un’opera di conversione con colture disinquinanti come la canapa tradizionale, guardandosi bene dal divenire serbatoio agricolo di no-food per centrali a biomasse spacciate per green economy.
Di pari passo con l’analisi di prodotti e terreni, vanno potenziati il sistema sanitario e le misure preventive, congiungendo il principio di precauzione alla sicurezza di cure e diagnosi in maniera diffusa. Il processo d’inclusione nelle decisioni su linee di sviluppo e su modalità di gestione delle necessità sociali comprende anche i rifiuti urbani. I piani di gestione dei rifiuti urbani in Campania sono stati fino ad oggi lo strumento governativo per imporre concezioni della materia, dell’energia e del bene pubblico profondamente antidemocratiche ed ecologicamente insostenibili. Constata l’incapacità degli attori istituzionali (incapacità interessata il più delle volte) di andare oltre approcci centralizzati di impianti per l’incenerimento, la consultazione paritaria e senza precondizioni con i movimenti territoriali dev’essere la base per il futuro piano di gestione e per la risoluzione dei cimiteri di ecoballe, abbracciando al livello di capoluogo e province il progetto rifiuti zero, sulla strada della riprogettazione non solo delle modalità di smaltimento ma dell’intero apparato produttivo.
Essere in migliaia per le strade servirà a dimostrare la non negoziabilità di questi punti e il fatto che la condotta istituzionale verrà controllata, giudicata e fermata in caso di abusi. Ma questo è un punto di partenza, non di arrivo. Ora c’è da fare un salto di qualità nella lotta, che già si preannuncia, e ci sono almeno due elementi a mio avviso fondamentali.
Il primo: è necessario un salto di scala. Già nelle battaglie di Acerra tra il 2000 e il 2004, quando gli attivisti contro l’inceneritore erano generalmente osteggiati e isolati, il collegamento e lo scambio con i comitati toscani che avevano una radicata esperienza sui rifiuti permise quell’opera di autoformazione permanente che portò poi in piazza trentamila persone informate. L’asse con la rete Rifiuti Zero e le lezioni del professor Connett sui cicli della materia contribuirono a socializzare saperi e sfatare tecnicismi, alimentando una comunità di esperti che perdura ancora oggi. I vantaggi strategici di una lotta che si apre al circuito nazionale e globale di saperi ed esperienze comuni sono evidenti. Sta già in parte accadendo con la nozione di Biocidio, assunta dalle associazioni del Lazio e filtrata nel linguaggio dei comitati impegnati anche altrove sul nesso salute-ambiente. Ora è necessario ricercare attivamente e stabilire alleanze oltre la Campania e oltre i rifiuti. A partire dai movimenti formati o emergenti italiani fino alle reti globali, il terreno dello scontro ha fondamenti comuni che devono essere evidenziati e resi produttivi, sia nel passaggio di conoscenze che nel supporto reciproco. Dalle comunità indigene del Canada che si oppongono al fracking nei loro territori a quelle del Brasile che tentano di fermare progetti di mega-dighe, dagli attivisti che affrontano il cambiamento climatico bloccando raffinerie in Inghilterra ai contadini turchi, etiopi e peruviani privati delle loro terre sotto la spinta degli scambi finanziari, fino ai No Tav, i No Muos, gli occupanti di Pisa, i comitati della Basilicata e della Puglia, in tutte queste lotte l’elemento territoriale e quello dell’espropriazione dei beni comuni attivano percorsi simili la cui fecondità reciproca è tutta da costruire. Il salto di scala ha più piani d’azione: le denunce a livello europeo nei tribunali sovra-nazionali contribuiscono alla certificazione dei soprusi e all’interesse internazionale alle vicende locali, ma è attraverso i forum indipendenti, le delegazioni, lo studio e la ripresa di modelli d’azione maturati altrove e adattati al contesto che il fiume in piena può inserirsi in uno scontro più vasto, assorbendo e trasferendo le tecniche per resistere lo sfruttamento e i contenuti per reinventare il comune. Ciò comporta un avanzamento nella critica incarnata dai movimenti.
E questo è il secondo elemento: la riflessione sui presupposti che hanno trasformato la Campania in uno sversatoio ha condotto diversi segmenti dei comitati campani, e già da anni, a un confronto con le modalità di produzione del sistema economico più generale per come si va configurando a livello globale. I rifiuti, industriali e urbani, sono l’ultimo anello di un sistema di estrazione e trasformazione delle risorse i cui costi e benefici sono distribuiti in maniera ineguale. L’accumulazione di ricchezza attraverso la contaminazione è solo uno dei caratteri dell’attuale riorganizzazione del capitalismo avanzato, organicamente collegato allo smantellamento del welfare, al lavoro precario, alla privatizzazione della natura e a decine di altri processi orientati a rinsaldare potere decisionale ed economico nel gruppo sempre più sparuto degli inclusi. Ci stiamo confrontando non solo con criminali di lungo corso e politici corrotti: quel che abbiamo di fronte è un intero sistema di obblighi e bisogni imposti, di modalità di produzione e riproduzione, il cui presente e futuro si basano sull’implacabile assottigliamento delle libertà individuali e delle garanzie dei diritti fondamentali. Se si riuscirà ad acquisire tale consapevolezza, non solo potremo facilitare l’identificazione con i movimenti da Gezi Park a Occupy Wall street, ma riusciremo a dare continuità e a progredire nella lotta, passando dalla resistenza all’autorganizzazione delle forme di riproduzione del sociale. Si tratta, attraverso la cooperazione, di creare mezzi e luoghi per il reddito, la sicurezza e lo svago sottratti alle logiche privatistiche e monetarie. Il linguaggio dei beni comuni è un catalizzatore potente, che sta già alimentando un ripensamento delle categorie del progresso, ma va ora trasformato in riappropriazione, controllo, propagazione e gestione egalitaria di risorse verso un’alternativa fattuale all’umiliazione e atomizzazione del lavoro e del soddisfacimento di bisogni per come si configurano attualmente.
È un percorso lunghissimo, che non è iniziato oggi e non finirà domani, ma di cui percepiamo chiaramente la necessità. Come noi, in molti luoghi e situazioni diverse, proprio ora, altre persone stanno fondando un comitato, prendono parte all’ennesimo picchetto o distribuendo i prodotti di una fattoria sociale. Mettiamo insieme gli elementi dell’emancipazione in corso, iniziando a dare continuità al 16 novembre piantando una tenda al centro di Napoli. Come hanno fatto a Madrid, a Tahrir, a Taksim. La nostra lotta da ambiente tossico a territorio comune è un altro punto nella mappa del cambiamento. Saremo in grado di essere all’altezza del compito? (salvatore de rosa)
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