Napoli, 23 febbraio
Il volo è previsto alle 12:20. Un amico si offre di accompagnarci all’aeroporto, ma quando ci muoviamo sono quasi le 11:30. Isoradio avverte: code fino a corso Malta per incidente. Tutto fermo. A mezzogiorno usciamo a Capodichino e via di corsa al gate. Sul Napoli-Barcellona della Vueling solo napoletani.
Barcellona, 23 febbraio
L’autobus dall’aeroporto ci lascia a Plaza de Catalunya. È ora di pranzo. Un panino da Mc Donald’s al volo e poi in ostello a lasciare le borse. Il nostro giro in città si limita alle ramblas. Le percorriamo avanti e indietro due volte, poi sostiamo al porto turistico per due ore. Imitiamo le pose fotografiche delle turiste, facciamo finta di calarci in mare, ci si picchia per scherzo. La goliardia la fa da padrona. Alle 20 si torna in ostello, guardiamo la partita tra Porto e Siviglia con uno spagnolo che neanche sa dove si trovi Vila-Real. Però odia Ibrahimovic, e tanto basta.
La sera si torna sulle ramblas, fino a che una ragazza dal sorriso convincente ci indica un ristorante in un vicolo. I prezzi sembrano buoni. Si mangia a base di pesce: sopa, revoltillo de gambas e paella. Due litri di sangria in due, e il buonumore diventa molesto. Si chiama a gran voce lo chef, lo si fa uscire dalla cucina e lo si invita a fare una foto con noi, in segno di gratitudine per l’ottima cena. Il personale sembra stupito. Di nuovo sulle ramblas, il mio amico compra un posacenere di alluminio atroce e lo mostra fiero. Comincia il giro dei baretti. Avviciniamo due americane chiedendo di scattarci una foto. Quando chiediamo loro di farsene una con noi, ci rispondono con un secco no e vanno via rabbiose. Dopo diversi litri di sangria arriviamo in un bar dove, con un bicchiere di vino, il chupito (cicchetto) è gratis. Parliamo per un po’ con un pugliese dall’anomalo accento toscano, che fa pubblicità al bar. Lo soprannominiamo Leonardo Pieraccioni. In ogni angolo, a Barcellona, ci sono pakistani che provano a vendere lattine di birra a un euro. Ne compro due. In una piazzetta scorgiamo i primi napoletani, stanno giocando a pallone davanti alla camionetta della policìa municipal all’una di notte. Uno di loro mi chiede ed ottiene l’uno-due, scagliando poi una poderosa bordata che va a finire in una saracinesca, facendo sobbalzare gli astanti per il rumore. Il gruppo si dà alla fuga. Sulla via di ritorno vengo avvicinato da numerose prostitute e altrettanti spacciatori, con i quali parlo amorevolmente. Alle 2 torniamo in ostello, il turista americano è sempre dove l’avevamo lasciato, al computer.
Vila-Real, 24 febbraio
Alle 9:20 di mattina prendiamo il regionale per Vila-Real. Quattro ore di viaggio che passano leggendo il giornale e prendendo a schiaffi il mio amico appena chiude gli occhi. Lui fa altrettanto.
Vila-Real è un paesino di cinquantamila abitanti, come Aversa, solo che la squadra partecipa alla coppa Uefa. Siamo i primi napoletani in paese. In un’ora lo visitiamo in maniera approfondita, per due volte, fino a che becchiamo, alle giostre nei pressi dello stadio, un gruppo di maranesi che preparano lo striscione “Marano presente”. Ci mostrano con orgoglio i completini che hanno comprato per i nipoti al negozio del Villarreal, ma poi scappano. Qualcuno li ha avvertiti che sta arrivando De Laurentiis allo stadio. Li seguiamo e li troviamo impegnati a rilasciare un’intervista a Sky. Si sprecano i pronostici in favore del Napoli, tutti accolti da schiamazzi, poi il finale: «Noi siamo venuti da Marano», e giù grida, fischi e salti. Pranziamo paella di carne in un ristorante dove ci sono solo napoletani. Per digerire cominciamo a camminare verso il mare, ma per arrivare a vederlo dobbiamo attraversare l’autostrada e decidiamo di tornare nei pressi dello stadio, dove nel frattempo sono giunti centinaia di compaesani. Alcuni di loro organizzano in pochi istanti una partita di pallone contro i locali. Tutto, durante la partita, è specchio di due filosofie di gioco contrapposte: i napoletani si chiudono dietro, ripartono velocemente in contropiede nonostante i fisici esplosivi, e sono supportati da un caloroso pubblico che tenta più volte l’invasione in campo. Gli spagnoli sono tutto possesso palla, giocate di fino e poche conclusioni a rete. L’emozionante match finisce sei pari: «Ma il pareggio fuori casa è buono».
Alle 18, la polizia ci fa accomodare in fila. I condomini dei palazzi circostanti si affacciano increduli. Alcuni ragazzi rivolgono loro cori spensierati. Dopo un’ora raggiungiamo il settore ospiti. Al gol di Hamsik notiamo alcuni ragazzi portati fuori in barella. Veniamo poi a sapere del crollo della balaustra. Lo stadio El Madrigal è progettato di modo che gli occupanti della parte superiore non riescano a vedere la porta sottostante. Ogni volta che, durante il primo tempo, il Villarreal attacca, tutti scendono di due file per cercare di osservare meglio. Vediamo i tiri partire, ma nessuno sa dove vadano a finire. Quando si intuisce (dall’esultanza dei tifosi in giallo) che la squadra di casa ha segnato ed è poi andata in vantaggio, sugli spalti si va in depressione. Sento per la prima volta la frase: «Se il Pocho fa il due a zero là, è finita». La risentirò altre mille volte, fino a Napoli. Si sostiene la squadra anche durante il secondo tempo, ma il Napoli esce sconfitto dal Madrigal per inesperienza. Applausi molto british a fine partita.
Ripetuti avvisi dello speaker ci informano che un treno speciale ci porterà a Valencia, e tutti i tifosi fanno i loro biglietti più o meno ordinatamente. Nel treno si avverte la delusione che per alcuni di loro, però, è il guaio minore. C’è infatti chi zoppica, chi si appoggia a un compagno, chi maledice l’agenzia. A Valencia un taxi ci accompagna in un ostello che il mio amico conosceva, dove ci dicono che è tutto pieno, indirizzandoci in un alberghetto cadente che però pratica prezzi stracciati. A letto senza cena. “Tristezza nera nello stomaco e in testa voglia di morire”, cantava Venditti.
Valencia, 25 febbraio
A mezzogiorno, su invito della cameriera peruviana, lasciamo l’ostello. Vaghiamo senza meta per la ciutat vella. I napoletani in città si vedono e si sentono. Intonano cori, bevono birra. A Valencia ci sono venticinque gradi, e ci stendiamo per un po’ al sole. Alle 17 decidiamo di andare all’aeroporto con la metropolitana, dove stringiamo amicizia con due fratelli gemelli di Ponticelli. Ci parlano del loro negozio di cibo per animali, del viaggio di nozze di uno di loro a Las Vegas, di alcuni amici che hanno speso duecento euro in un night club. Ai controlli temono che il posacenere di alluminio sia un’arma. Sul volo Ryanair le restrizioni per i bagagli sono una gran seccatura, e così al gate vediamo un ragazzo che indossa sei maglie, il giubbino e ha un ombrello nel cappuccio.
Un gruppetto di scalmanati dà fastidio a un assistente di volo che, prima che questi arrivino alla scaletta dell’aereo, li rincorre e gli si para davanti: «Relax if you wanna fly, ok?». Risposta secca: «Stai sciolto, fratè, ca te fanno colonnello!». All’hostess spagnola rivolgono romantici apprezzamenti, scattano foto, si alzano infischiandosene dell’obbligo di cintura allacciata. Lei è sempre compita, impeccabile. Quando al suo passaggio, però, i ragazzi le fischiano dietro, urlando: «Dieci e lode!», si lascia scappare qualcosa, in perfetto italiano: «Che cafoni!». (davide schiavon)
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