Che cazzo vuole lo Zio da me? Me ne vado a letto con questa domanda nella testa. Domani è venerdì, anzi è già venerdì, visto che sono le cinque del mattino e di chiudere occhio nemmeno a parlarne. Sono disteso sul letto, cerco di portare la mente altrove. Metto le cuffie del Sony sperando che la voce di Raiz mi dia un po’ di pace e in effetti per qualche minuto tra Fatmah e Respiro ci riesce pure. Ma sono teso, ho bisogno di rallentare e conosco un solo modo. Mi alzo dal letto, mi abbandono alle mie due liniette, chiudo gli occhi ma non mi addormento. “Luna chiena, notte ‘e viennarì…”. 47 degli Alma mi tiene compagnia, almeno non penso più.
Mi chiamo Salvatore Trematerra, qualcuno mi chiama lo Zio. Sono nato nel 1935 a Napoli. Amo i vestiti sartoriali, Peppino Brio e Lina Sastri, le belle donne e giocare a Zecchinetta. Ho patito la fame, la fame nera, qualche soldo ho iniziato a farlo quando da ragazzino, insieme a un gruppetto di amici, portavamo gli americani a puttane. Li prendevamo al porto, loro scendevano dalle portaerei e tra una birra e un bocchino da Nunzia ai Quartieri gli sfilavamo qualche dollaro. Mimì Cammarota, Pinuccio ‘o Nanetto, Paraculo e Sarnataro. Quello che guadagnava uno guadagnavano tutti. Dopo abbiamo iniziato a fare qualche scippo, e poi i furti, le case dei signori a Posillipo, ma i soldi veri li abbiamo fatti con le sigarette. Carcere e pistolettate, qualcuno l’abbiamo perso per strada. Ai tempi delle sigarette io ero il braccio e Sarnataro la mente. Lui era sempre stato il più sveglio. Profilo basso, vestito come un impiegato, un modesto appartamento, la Fiat 128 cambiata solo a quattrocentomila chilometri, ma i soldi che ci ha fatto fare erano tanti. Parlava italiano, Sarnataro. Mai una frase fuori posto, poche parole e investimenti giusti. Era un fratello. Oggi ho mandato a chiamare “suo” figlio Eugenio. Ha avuto qualche problema negli anni ma è cresciuto bene. È nu bbuon’ guaglione.
Sono le undici e mezza. Tra un quarto d’ora sarò fuori i cancelli della villa dello Zio a Cupa San Nicandro. Scendo a piedi, mi faccio vedere in giro da un po’ di amici e negozianti e rendo tracciabile il mio percorso. La prudenza non è mai troppa. Arrivo in anticipo, mancano dieci minuti all’appuntamento. Il cancello automatico si apre dopo l’ok delle telecamere a circuito chiuso. Vedo una Porsche 911 parcheggiata, un dobermann fa qualche movimento veloce verso di me ma un fischio lo fa fermare prima che mi sbrani. Alzo la testa e vedo lo Zio sul terrazzo che affaccia al giardino. Ride di gusto. Con un cenno della testa mi invita a salire, non prima che due facce poco raccomandabili all’ingresso mi abbiano perquisito. Ho ancora paura del dobermann e farmi mettere le mani addosso da quei due mi sembra quasi una cosa piacevole. Terminate le operazioni uno dei due mi scorta alla stanza dove lo Zio mi sta aspettando.
«Buongiorno, come andiamo?».
«Buongiorno…».
«Tieni fame? Tra poco se hai piacere ci mangiamo due vongole».
«Come se avessi accettato».
«Tengo buone notizie per te. So che ultimamente hai avuto un po’ di sfortuna, ma pian piano so anche che le cose si stanno aggiustando. Sono contento per la questione della casa…».
«La casa?».
«Eh la casa, la casa… Anzi, nun ji ‘e pressa coi dieci milioni, una soluzione la troviamo».
«La troviamo?».
«Ma tu ripeti solo quello che dico io? La troviamo, nel senso di io e Ragozzi, quello che mi gestisce ImmobilEst. Almeno questo te lo dovevo».
«Scusate ma non sto capendo un cazzo…».
«Meno male, almeno hai finito di fare domande. E mi pare che hai finito pure di fare il tenente Colombo, no? Però ti facevo più sveglio. Un mese avanti e indietro, e non hai capito niente?».
«Quello che non ho capito è che c’azzeccate voi con Sarnataro».
«Ti meriti un poco di tranquillità».
«Rispettosamente, che sfaccimma c’entrate voi?».
«Weeee… ‘mmerdillo! Nun te permettere ‘cchiù ‘o sinò te faccio zumpa’ ‘a capa. Mo’ pigliati da bere da quel tavolino, siediti e appicciati una sigaretta».
«Obbedisco…».
«Siente nu poco, Gegè, tu sei un ragazzo sveglio. Ma fammi capire una cosa: ma secondo te quando cacavi il cazzo nei locali co’ quell’handicappato di Moncherino e te ne uscivi pulito così, senza che un buttafuori ti scommasse di sangue, come succedeva ‘sta cosa, per opera e virtù dello Spirito Santo? Secondo te gli amici tuoi sfasciavano il Botanys e nessuno vi veniva a pigliare fino a casa? Sopra al campo come facevi a entrare e uscire dai gruppi organizzati senza che nessuno ti lasciasse a terra? E qualche settimana fa, a Parma, te ne sei andato dal commissariato così, dopo due ore, con un arrivederci e grazie… E poi una casa per dieci milioni, ma veramente fai… e scetate, Gegè!».
«Mi dispiace per voi ma continuo a non capire un cazzo».
«E allora vuol dire che mi so’ sbagliato io a farti così sveglio. Ho pensato pure che potessi dare una mano, pienz’…».
«Io?».
«Se i Trematerra sono quello che sono, molto è merito un cervello fine e di un tipo preciso come Sarnataro. E a quanto ne so questo cervello lo tieni anche tu, anche se non sei figlio suo».
Forse comincio a capire, ma butto giù il whiskey sperando di svegliarmi sudato per le pasticche e le liniette.
«Sarnataro era uno di noi. Nessuno lo sapeva e doveva saperlo. Era una macchina da soldi, li moltiplicava come Cristo col pane e il pesce. Nessuno lo sapeva, come nessuno sapeva di te. Nemmeno lui, fino alla morte di tua madre. Una donna immacolata. Abbiamo sbagliato solo una volta, io e lei, abbiamo pugnalato Sarnataro alle spalle e questo non me lo sono mai perdonato. Quando lei stava per morire mi mandò a chiamare, e mi chiese di dirglielo. Ma tu non dovevi sapere niente…».
«Non è possibile».
«Sarnataro ti ha cresciuto bene, era un uomo intelligente, e rimanere sotto coperta faceva parte della sua intelligenza. Tu ci puoi dare una mano. Sta a te decidere».
Ho un mancamento. All’improvviso mi gira tutto intorno. In pochi secondi rimetto insieme i pezzi di tutto quello che è successo nelle ultime settimane. Il commissariato a Parma, la casa, il notaio, quella cazzo di motocicletta… evidentemente Ciro aveva saputo delle intenzioni del padre di riallacciare i rapporti e non l’aveva mandata giù. Non posso tergiversare. Con uno come Salvatore Trematerra bisogna essere chiari.
«Io non sarò mai come voi», gli dico guardandolo negli occhi. «Né servi né padroni. E ora se permettete tolgo il disturbo».
«Quante puttanate, guaglio’. Vai, ma pensaci bene. Non ti lascio tutta la vita per decidere. E una volta che fai una scelta, quella è».
Mi alzo, e scendo le scale di fretta. I due sull’ingresso della villa guardano altrove mentre mi allontano a passo svelto. Il cancello automatico si apre per farmi uscire, pugni stretti in tasca per sbollire la rabbia e capo chino. Faccio un centinaio di metri, e all’altezza del campo Buonocore vedo di nuovo quel Transalp correre a tutta velocità. Rallenta, è Ciro, ora lo so. Non ho il tempo di pensare a niente. Ciro caccia un ferro da dietro la schiena, quattro botte, proprio come la canzone che sentivo stamattina. “Stutate ‘sta luce, acalate ‘a voce…”. Una voce mi tiene compagnia mentre chiudo gli occhi e non oppongo resistenza. (gerardo picarelli)
__________
ZONA EST NOVANTA
Leave a Reply