
Quando ho avuto per le mani La linea fragile. Uno sguardo ecologista alle coste italiane (Edizioni dell’Asino 2022, 10 euro) di Alex Giuzio, ero reduce da uno scambio di opinioni sulle pale eoliche. “Lassù – mi aveva detto in tono ammirato un amico riferendosi al Nord Europa – le coste sono tutte puntellate di pale”. Avevo torto il naso, e ripetuto il solito mio refrain: “Sì, le pale, le pale; e l’idroelettrico e i pannelli solari, ma per farci l’energia per fare che?”. Già, perché le esigenze del mercato, cioè del capitalismo e cioè della società a esso interamente sussunta, sono infinite e per loro natura sempre crescenti. Senza crescita lo scambio capitalistico non ha senso: D – M – D’ recita la formula marxiana rivelatasi corretta, ovvero il denaro (D) è trasformato in merce (M) allo scopo di divenire infine più denaro (D’). Se il denaro non è di più il gioco non vale la candela: non si scambia denaro con merce se da quella merce si ricava, al termine del processo, la stessa quantità di denaro che si aveva in partenza. Quindi, nel suo complesso, l’economia (il Moloch) è costretta a crescere, e dunque a nutrirsi anche di sempre più energia. Pensare di soddisfare il mostro aumentando le pale significa incamminarsi verso un precipizio, perché il suo appetito aumenta via via che mangia, e così dopo aver riempito di pale tutta la costa e i rilievi a risultare irrinunciabile sarà il nucleare, e così via.
Il libretto di AG non parla di eolico offshore, e suppongo ciò sia per scelta; però, mi permetto di dire, in modo estremamente soggettivo, che è come se ne parlasse. Perché si apre e si chiude con considerazioni rispettose di fronte al paesaggio, all’orizzonte marino, senza alcun tributo al decostruzionismo d’ordinanza. Non dice infatti “il paesaggio è comunque un artefatto”; “la natura è cultura” e via di formule rituali à la page, cioè verità in astratto che appena pronunciate si mutano in inutilità e danno, ma parla piuttosto e al contrario di “liberatoria apertura dell’orizzonte e del mare”, ovvero di qualcosa che pertiene alla nostra esperienza sensoriale, che per fortuna è misura del reale assai più di quelle stucchevoli posture. Se dunque “la linea blu tra cielo e mare” (AG) risulta torturata da spine come la bambola voodoo con la quale si cerca inutilmente di esorcizzare la distruzione terrestre (e presto extraterrestre) portata dal capitalismo, allora si può ben inferire che la “liberatoria apertura dell’orizzonte” evocata dall’autore sia, con le pale, decisamente fottuta. Dice invece, AG, delle esplorazioni ed estrazioni in mare alla ricerca di idrocarburi, dello strapotere delle compagnie petrolifere che le esercitano, e dei nomi che ne accompagnano la crescita (tre per tutti, i soliti che sembrano comporre luoghi e protagonisti di una favola ferale: Prodi, Monti, Draghi).
Ho provato, con il libretto di AG, immediata sintonia. Anche sulla questione dei balneari, rispetto alla quale tanto mi avevano infastidito i nénéismi di certa stampa digitale “di movimento” alla quale sembrava essere indifferente avere come interlocutore la micro-imprenditoria dei balneari o le multinazionali dell’intrattenimento (“Papà, oggi andiamo alla spiaggia Disney che c’è la Cyborghetta che rigurgita smartcobaleni?”; “No, Pierino, eravamo d’accordo che oggi si andava alla caletta Postatomica della Distobeach di Netflix, non ti ricordi?”). La stessa confusione, d’altronde, che quelle testate avevano esibito in tempo pandemico, quando indicavano con “capitalismo” solo le aziende che volevano far ripartire la produzione, accusandole di riaperturismo, mentre sfuggiva al loro sofisticato radar il capitalismo delle piattaforme digitali, che ci avrebbe volentieri chiusi tutti e tutte in casa a tempo indeterminato, per anzi spesso glorificarlo con recensioni che esaltano ogni serie tv come evento epocale. Sulla questione dei balneari, oltretutto, AG propone una soluzione pratica che permetterebbe di eludere le strette della legislazione imposta dall’autocrazia di Bruxelles, ma immagino resterà inascoltato.
Su un punto non concordo con AG: non spero che le linee ferroviarie a mare, e conosco piuttosto bene quella marchigiana, siano trasformate in piste ciclabili. Non per un motivo astratto, e pur avendo ben capito la necessità ambientale di farlo (AG lo spiega brevemente ma in modo esaustivo). Ma con la classe dirigente che ci ritroviamo un tale progetto si muterebbe in tragedia: la pista ciclabile diventerebbe come minimo un’autostrada dello shopping, lo spostamento della linea all’interno si muterebbe in devastazione ambientale e umana; le aree di rispetto intorno alla vecchia ferrovia, dove presenti, sarebbero edificate multipiano, e chi più ne ha più ne metta e ne immagini. Nessun accomodamento è auspicabile quando a realizzarlo sono gli adepti del Moloch, perché si traduce puntualmente in un nuovo e ulteriore danno. Il che comporta il rischio d’augurarsi l’inazione; ma l’inazione, al punto in cui siamo, è inaccettabile. Questo paradosso purtroppo non può essere sciolto né in modo propagandistico né in modo comunicativo (che sono i soli campi in cui sembra agitarsi qualcosa, barattoli di vernice inclusi), e neppure ha senso chiedere alla politica di “fare qualcosa”, perché la politica è semplicemente lo strumento di mediazione sociale concesso dal capitalismo, e ciò che può fare è solo rimestare tra i preventivi e i progetti che il capitalismo le mette a disposizione. Dunque rimane lì, il paradosso, abbagliante e ineludibile, per chi lo sa vedere.
L’esile libretto contiene anche altro, nelle sue 71 pagine più paratesto. Il muro dei bagni, espansi l’uno a toccare l’altro (balza alla mente la parte più pretenziosa del lungomare di Cervia), impenetrabile per chi volesse andare in spiaggia, coi passaggi presidiati da vetri quando non persino da buttafuori. Colpa dei balneari cattivi? No: delle amministrazioni che lo hanno loro concesso. I balneari, persino quelli più avidi, non avrebbero potuto farlo da sé senza commettere un illecito rapidamente sanzionabile e reversibile. Bastava, semplicemente, che comuni e regioni avessero detto dei no; ma hanno scelto un altro modello di turismo, oltretutto un modello di turismo che consuma se stesso, scoraggiando l’accesso a quella spiaggia che è il motivo originario della villeggiatura.
Altro ancora, il testo di AG, lo evoca, e mi fa venir voglia di raccontarne. La luce artificiale che travolge le spiagge, per esempio, e ne fa luoghi non accoglienti di notte, in cui non ci si può più appartare per baciarsi né scrutare l’abbraccio tra le diverse oscurità di mare e cielo. La luce, cioè la decisione istituzionale di illuminare il tratto di costa, ci fa percepire la spiaggia come luogo pericoloso, quando invece il pericolo, dove c’è davvero (prima vanno sempre visti i dati, misurati, eccetera), è semmai nella trasformazione della costa in divertimentificio concentrato ad alta circolazione di sostanze. O ancora penso al tempo assai recente in cui le spiagge erano il luogo privilegiato della razzistissima caccia al “venditore abusivo”, in cui le istanze della legalità e della razza, cioè della sinistra “dem” e della destra salviniana, si mescolavano e si sposavano proprio mentre si fingevano alternative.
La lettura del libretto mi fa poi venir voglia di dire del modo odioso con cui le amministrazioni locali usano le già risicate spiagge libere, ovvero sequestrandole all’uso semplice e umile delle persone per farci tornei sportivi, concerti con o senza Jova, o qualsiasi altra cosa passi per la testa loro e dei loro sponsor. Attività apparentemente “pubbliche” che contrastano e deviano lo scopo pubblico stesso della spiaggia libera. Le spiagge infatti sono lì per fare le spiagge, almeno fin quando ci sono. Tema questo (il “fin quando ci sono”, cioè il fin quando non saranno sommerse) che AG non elude affatto. D’altronde come si potrebbe dimenticare la catastrofe, guardando al mare?
Il capitalismo ha assunto la propria fisionomia lungo le rotte marine dei traffici coloniali. Cinque secoli dopo proprio il mare ci presenta il conto delle devastazioni causate dal capitalismo, e lo fa, da par suo, levandosi sulla terra e risalendo nei fiumi. Sviluppo ed esito sono lineari, prevedibili. Il solo modo per tentare di modificare il destino sarebbe sacrificare crudamente il colpevole, il capitalismo, pregando così in modo fattivo per placare gli elementi. Ma esso – il male, il capitalismo – si è innestato nella nostra vita; fino a divenire, tramite le sue tecnologie e le sue promesse suadenti, la nostra vita stessa. Solo rinunciando a una gran parte di ciò che siamo potremmo reciderlo da noi e recarlo sul luogo adatto al sacrificio, luogo che non potrà essere che una spiaggia. Ma non lo faremo: ci costa troppo. Invece pianteremo pale, questo sì, infilate come i dardi di un gioco a freccette che si fa contro il cielo; ottenendo così che le spiagge, fino a quando non spariranno sotto l’acqua, ci pongano di fronte un orizzonte deprimente. Non per questo meno le rimpiangeremo. (wolf bukowski)
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