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7 Ottobre 2012

Salento: per esempio a me piace Borgagne

Antonio Bove
(archivio disegni napolimonitor)

Appena nomini il sud si parla di turismo. Dagli anni Novanta è diventata proprio una malattia. Solo il turismo ci può salvare. C’è bisogno di investire in infrastrutture per il turismo. In realtà ci pensavano perché era finito l’intervento della Cassa del mezzogiorno e a zizzinella asciutta non veniva in mente a nessuno di parlare di catene di montaggio. E così parlavano del turismo, pure per dire qualcosa. I turisti in realtà sono anni che vengono al sud ma solo in determinati posti. Si ammassano in quelle località che hanno avuto la ventura di trovarsi in posizione ideale da farne luoghi “di vacanza” tralasciando il resto, il cuore scuro del meridione. La progressiva crescita dell’afflusso di vacanzieri ha mutato la fisionomia di questi luoghi in modo violento, alterato i tempi dettati da antichi ritmi ormai schiacciati dal mercato delle ferie. Ce ne sono in ogni angolo di queste terre, e portano intorno una corona di luoghi meno fortunati, perché non affacciati direttamente sul mare o tra vette da cartolina. Sono i paesi vassalli che vivono in attesa dell’estate, per raccogliere le briciole della ricchezza che per un mese arriverà a lambirli. Il Salento è una terra dove il paradigma della trasformazione dei vecchi borghi rurali  in località per vacanze è molto istruttivo. Otranto, Gallipoli, S. Maria di Leuca sono lo specchio di cosa ha fatto la mutazione economica e quindi sociale e culturale a luoghi antichissimi segnati da guerre e instabilità politica. E dalla miseria. «Prima di andare alla Svizzera qua facevamo la fame. Cosa c’era, niente. Mangiavamo le frise con l’acqua e un po’ di pomodoro, qualche volta c’erano i fagioli. Perciò siamo andati alla Svizzera».

Sono partiti lasciando la campagna salentina che è cambiata solo vicino alla costa, dove il mare richiama migliaia di bagnanti rimanendo povera e desolata nell’entroterra. A Borgagne vivono circa duemila persone, e ci capiti per caso o sbagliando la prenotazione. Attraverso la cruda realtà di borghi come questo, si assesta un colpo mortale alla narrazione fantastica di un meridione come incantato e, per questo, distante dalle cose del mondo. Un sud imbambolato nella sua condizione quasi fosse un destino immutabile. Che poi è parente a una condanna. Cosa si racconta, del Salento? Le coste di sabbia fine e il mare. La taranta. La magia di fattucchiere che si tramandano riti antichissimi. La musica. La Jamaica d’Italia. Tutte cose reali, certo, ma nessuna in grado di raccontarlo nella sua interezza. È questa maledizione del racconto parziale che pesa sulle terre del nostro mezzogiorno, offuscandone la realtà. Una narrazione che risponde però non al caso. È un raccontare funzionale a un’ideologia che nasconde la verità dei processi, i graffi e le storture dolorose della storia per occultarne i meccanismi. Il perché delle cose. È tutta interna al potere e si sviluppa come forma di dominio, questo narrare la Napoli del glorioso passato perduto o il Salento della magia. Lo stereotipo mascherato da sineddoche. Raccontare una parte come se potesse riassumere tutto.

Poi paradossalmente scopri borghi che raccontano la verità su questo angolo di meridione scannato dalla solitudine. Come Borgagne che sta in fondo a una strada provinciale dritta e interminabile che congiunge Lecce alla fine della terraferma. Campi di olivi piegati dal vento e case basse di calcina, il tetto faccia al cielo con le cisterne d’acqua in cima, la foresta delle parabole fra i tetti. Come molti è un villaggio di vecchi.  Un corteo di rughe, passi incerti, prostate e zoppie. Fotografie che non vanno sui depliants. Sono gli anziani l’icona di questi luoghi in cui la povertà ha fatto strage di energie. Aspettano che passi il giorno seduti fuori dalle case in cerca di fresco. Si appoggiano alle stampelle caracollando da un lato all’altro della strada. Bastoni canadesi, deambulatori con appoggi ascellari, è un lungo elenco di presidi sanitari di ausilio alla deambulazione, il tramonto fra le stradine, quando escono dalle case in cerca di fresco e qualche chiacchiera. «Alla Svizzera lavoravamo come le bestie, proprio. Mattina e sera. Mio figlio piccolo lo facevo dormire nell’androne dello stabilimento e una volta mi hanno fatto pure la multa. Perché là non si scherza, eh! Ma io non sapevo come fare, se no. Là c’era solo lavoro». Il lavoro. Un’ideologia che ha posseduto la nostra civiltà per secoli. Passando come un rullo sulle vite di gente come questa, poverissima in una terra ricchissima. Forse perché il suo sottosviluppo è stato da sempre una funzione dello sviluppo complessivo del paese.

Sono passati più di trent’anni dalla pubblicazione delle intuizioni felici di Ferrari Bravo e Serafini ma “Stato e sottosviluppo”, quel libro luminoso, è lontano dal dibattito politico. È passato anche un ventennio da quella stagione dei sindaci che si annunciava come una rivoluzione civile per il sud e che si è spenta tra le macerie dei partiti, in questo paese che pare non avere proprio più niente da dire. Un paese vecchio avviato a un futuro dai passi incerti, affidati alle stampelle. Un paese che a pensarci ti vengono le rughe e si abboffa la prostata. (antonio bove)

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