Il vecchio Pellegrini a Napoli è un po’ come se fosse l’ospedale in casa. Incastonato nella Pignasecca, ne condivide la vita, gli odori, il flusso di persone che dalla stazione della Cumana e dalla metro si riversano in centro, non è strano trovare operatori sanitari che fanno una pausa nei bar di fronte, tra i migliori della città, o persone sanissime che entrano giusto per fare un bancomat, a uno dei pochi sportelli in circolazione. È tranquillizzante il pensiero di poter raggiungere a piedi il pronto soccorso, fronte strada, e una volta usciti rientrare immediatamente nel caos e nella corrente umana. Molto più ardua la corsa in ambulanza, che di giorno deve districarsi tra vicoli e bancarelle, avvolgendo il quartiere con la sua sirena che sovrasta e si mischia con il rumore perpetuo formando una colonna sonora decisamente familiare.
Alle tre del mattino tra il 29 febbraio e il 1° marzo mi è capitato di dover andare per forza, in uno stato di dormiveglia, al pronto soccorso. Essendo dietro casa, l’ho presa con filosofia perché pensavo di fare molto presto; essendo di notte, per qualche istante ho pensato di ritrovarmi in uno scenario della serie “ai confini della realtà”. Ma è stato solo un attimo. La realtà è andata molto oltre l’immaginazione.
Il taxi che avevo preso non è potuto arrivare all’ingresso principale, completamente ostruito da decine di persone. Il tassista con voce dolce mi ha invitato a scendere e a procedere a piedi, qualcosa è successo, ha detto.
La quiete dopo la tempesta, nel cortile e nell’atrio persone di tutte le età, a piedi, in motorino o in carrozzella, in silenzio o mormorando, per terra pezzi di barella, sedili, lenzuola, un telefono fax, l’ambulanza aperta e smontata, gocce di sangue come tracce verso la reception del pronto soccorso, dove arrivo come stregata, in quel momento il mio dolore non me lo ricordo quasi più. Dietro il vetro, la devastazione, nessun personale medico o sanitario, tutti fuggiti, solo un ultimo paziente che finisce di fasciarsi un ginocchio aiutato da qualcuno. La polizia si muove lentamente in questa situazione che si fatica a comprendere, un agente riesce solo a dirmi che me ne devo andare. Il pronto soccorso è fuori uso, restare per farsi curare non ha senso, ma resto lì impalata, ascoltando, come tutti, il lamento potente di dolore e rabbia che prende corpo in napoletano da una donna anziana che sta seduta con altre, come guardiane di un tempio, come prefiche di altri tempi di una sconvolgente tragedia.
Su tutta la scena dominano le donne, le madri, le nonne, le vecchie, che in vestaglia, pantofole e camicia da notte, si sono riversate dalle case per assistere, piangere e accogliere un destino tremendo. Dalle parole della donna, che sono un misto di bestemmie, racconto di quanto è accaduto e maledizioni, estraggo le parole chiave. Un carabiniere, ha ucciso, un figlio. Non il suo, dunque, ma un figlio di tutti. Mi sembra un incubo, una storia già sentita, forse non ho capito bene. Capisco però che il pronto soccorso ribaltato è la reazione disperata per la morte di qualcuno. Me ne devo andare per forza alla ricerca di un altro pronto soccorso perché non riesco a stare in piedi. Sono le quattro ed è ancora buio, ma la Pignasecca è sveglia per metà. Vorrei chiamare tutti quelli che conosco e che raccontano questa città per dirgli di venire, è successa una cosa tremenda, che ci coinvolge tutti, ma poi mi sembra solo un delirio notturno.
Raggiungo un altro taxi in piazza Carità, l’interno è stravolto come se qualcuno avesse saltellato sui sediolini, il tassista mi dice che il posto più vicino è il Loreto Mare. Non mi entusiasma l’idea, ma mi faccio condurre. Inizio a descrivere quello che ho visto al Pellegrini, ci chiediamo a vicenda informazioni in più perché lui, poco prima, ha trasportato una ragazza in panico che urlava che due su un motorino la volevano uccidere. Quindi lui, ancora più terrorizzato, ha iniziato a correre come un pazzo e l’ha depositata da qualche parte. Ricostruiamo una storia plausibile con i pochi elementi che abbiamo, le parole della donna in ospedale, quelle della ragazza nel taxi, che introduce il nome della strada, via Generale Orsini a Santa Lucia, e si rafforza l’ipotesi che un carabiniere abbia davvero ucciso un ragazzo, soprattutto quando vediamo nella stessa piazza Carità un assembramento fuori alla caserma dei carabinieri Pastrengo. Chi fosse la ragazza resta invece un mistero.
La città notturna, semivuota, appare un luogo sconosciuto e inospitale, una città invisibile. Il tragitto verso il Loreto Mare è breve ma attraversa vari mondi, i cumuli di immondizia invadono in alcuni punti le strade e i marciapiedi, piazza Mercato è un cumulo di macerie per una riqualificazione interrotta da mesi, in una penombra spettrale che stride con le due arterie che la racchiudono, il Rettifilo illuminato e la nuova via Marina con le sue aride palme. La grande vetrina Napoli nasconde malamente la polvere e con il buio fa emergere quelli che non possono varcare la soglia della rinascita cultural/consumistica. Le persone che si intravedono a quest’ora sono per lo più giovanissimi in motorino, giovani donne in attesa, migranti che si spostano in biciclette di fortuna e si rifugiano in macchine aperte giusto per la notte. Il conflitto tra mondi è una delle possibilità delle notti napoletane, ed è quanto deve essere accaduto a Santa Lucia questa notte in particolare.
Il Loreto Mare è praticamente vuoto e mi ricoverano velocemente. Porto la notizia della chiusura del Pellegrini di cui nessuno sa ancora niente, formulando l’ipotesi più accreditata fino a quel momento. Medici e infermieri partono con i racconti di quando anche loro si sono dovuti asserragliare a causa della rabbia di parenti per qualche insuccesso medico. Dalla barella controllo come posso il telefono per vedere se e quale notizia esce ma non c’è niente fino a quando non mi dimettono al mattino.
Al mio risveglio qualcosa è stato pubblicato e resto prima di tutto colpita dalle incongruenze degli orari ufficiali che spostano in avanti i fatti. La seconda cosa che mi impressiona è che il giovanissimo Ugo, ucciso dal carabiniere, fosse proprio di Montesanto e che il Pellegrini, vicino casa sua, sia stato l’ultimo posto in cui è arrivato. La terza, la quasi altrettanto giovane età del carabiniere che ha sparato.
Quattordici anni fa abbiamo fatto un’inchiesta per un libro collettivo dal titolo Traffici criminali. Camorra, mafia e reti internazionali dell’illegalità, in cui portavamo quello che ci sembrava più significativo in termini di ripercussioni e ferite territoriali, umane e sociali, in un concorso di responsabilità tra stato e camorra: la voce dei giovani. I nostri giovani, giovanissimi, i poveri tra il centro e la periferia, erano a quel tempo già spacciatori, rapinatori di rolex, ladri, compagne e figlie di capi rione, con cui avevamo e abbiamo profonde relazioni, nel tentativo di comprendere e agire per “cambiare le cose”, attraverso la pedagogia, il teatro, la formazione, la connessione con altri mondi.
Da allora, nonostante gli sforzi di una tenace parte di città che spesso viene lasciata sola o con esigue risorse oppure oppressa dalla burocrazia – anche Ugo è passato per uno dei centri educativi più autorevoli e radicati sul territorio – siamo rimasti fermi. Il concetto di devianza giovanile è ormai considerato, a partire dai corsi universitari di pedagogia e psicologia, come un fenomeno da tamponare, circoscrivere, arginare finché si può, ma senza alcuna speranza di un cambiamento. Il giovane deviato non può che finire male a un certo punto della sua esistenza, se lo aspettano tutti. Di conseguenza sono limitate le risorse, ma è soprattutto limitata la capacità progettuale e la volontà di ragionare su prospettive di lungo termine.
Alcune misure, già previste e con fondi pubblici a disposizione, che consentirebbero un po’ di respiro, vengono applicate in maniera discontinua, senza che nessuno ne possa comprendere le ragioni e i criteri. Un esempio su tutti, il programma Garanzia Giovani – per favorire tirocini lavorativi retribuiti, sostenendo sia il giovane che l’impresa che lo accoglie –, frutto di accordi tra Unione Europea, ministeri del lavoro e delle politiche sociali, che la Regione Campania gestisce in maniera discontinua e inadeguata. Le spiegazioni sono affidate a negligenti e annoiati funzionari che rispondono fino alle ore 14 a un numero verde che dovrebbe invece funzionare a pieno regime, vista la tematica.
Da un estratto dell’inchiesta del 2006: “Senza distinzioni, senza pietà, senza umanità, vengono considerati come bestie (ricordiamo alcuni articoli della cronaca di quotidiani cittadini che più volte hanno usato questa espressione); e loro apparentemente reagiscono in maniera folle e disumana. E anche disperatamente autodistruttiva. È un modo come un altro per affermare la propria esistenza e la propria identità”.
Riguardo al lavoro, ritroviamo le stesse parole che si potrebbero ascoltare dai giovani di oggi, molti dei quali – se non sono emigrati, privilegiati, inoccupati – sopportano dodici ore al giorno di lavoro, tutti i giorni, a nero, con una retribuzione che non si può chiamare stipendio, e che alla fine ringraziano anche i cosiddetti datori di lavoro: “Non conferisce identità, in genere è qualcosa che difficilmente è ottenibile e per questo non degna di ricerca e di uno sforzo progettuale concreto. Il lavoro possibile è visto come sfruttamento, al nero, che non gratifica le attitudini, le esperienze passate sono associate a emozioni negative. Il lavoro ideale è il lavoro autonomo, senza padrone, in genere in ambito commerciale, ma sempre per un’alta retribuzione”.
La morte di Ugo potrebbe essere la triste occasione per aprire un dibattito serio, ascoltare le voci dei protagonisti, intervenire in contesti cittadini abbandonati o immaginare prospettive di cambiamento. Purtroppo, immediatamente e come ogni volta, è prevalsa l’opinione di chi ritiene che di questa parte di città si possa tranquillamente fare a meno, chi più chi meno esplicitamente.
Ma, chiacchiere a parte, contano poi le azioni. Uno degli intervistati dell’epoca, un giovane caporione che aveva come scopo nella vita guadagnare e portare avanti la sua famiglia, concluse così la nostra chiacchierata: “Ci vorrebbe quella cosa, come si chiama, quella cosa successa tanto tempo fa in Francia… ma come si chiama? Quella cosa successa in Francia…”. “La rivoluzione?”. “Sì, la rivoluzione!”. (emma ferulano)
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