Un marittimo italiano guadagna in media duemila e duecento euro netti al mese. Uno filippino quasi la metà, mille e duecento euro. Una media calcolata dal Medi Telegraph che, pur essendo ponderata – tiene conto di tutte e quattro le tipologie di navi mercantili, portacontainer, portarinfuse, petroliere e traghetti –, mette in luce la grossa differenza di costi e competitività tra un ufficiale connazionale e uno proveniente dall’Asia. È il costo del lavoro, la chiave di volta dell’economia mondializzata, il fulcro nel quale convergono, in misura inversamente proporzionale, tanto gli interessi del datore di lavoro quanto quelli dei lavoratori.
Tra Emanuele Grimaldi e Vincenzo Onorato – due dei più forti armatori napoletani, il primo alla guida di Grimaldi Lines, il secondo di Moby e Compagnia Italiana di Navigazione (Cin, ex Tirrenia) – è scoppiata recentemente una polemica a suon di lettere pubblicate su quotidiani e comunicati stampa. È stata l’occasione per mostrare le dinamiche del costo del lavoro nel mondo marittimo, ovvero, dal punto di vista del padrone, quanto liberamente un armatore possa imbarcare l’economico equipaggio extracomunitario.
Tra Grimaldi e Onorato è in gioco l’egemonia marittima del Tirreno. Una partita che durerà diversi anni e da dove alla fine, come in genere succede quando due armatori entrano in concorrenza, uscirà soltanto un vincitore che non prenderà tutto, ma perlomeno il grosso degli affari. Sono i due principali operatori di cabotaggio (il trasporto a corto raggio, quello dei traghetti) dell’alto Mediterraneo, trasportando con le compagnie sopracitate le persone che dalle coste della penisola devono raggiungere Sardegna e Sicilia, e viceversa. Un traffico chiave, costante e meno fluttuante della domanda di trasporto merci essendo legato all’esigenza di spostamento delle persone, quelle annuali dei pendolari e quelle dei vacanzieri estivi. Grazie a una serie di accordi sindacali e alla nascita, nel 1998, del Registro Italiano Internazionale (aggiornato nel 2003), Grimaldi, armatore internazionale, nelle rotte nazionali tirreniche tra isola e terraferma usufruisce degli sgravi fiscali per l’imbarco di marittimi italiani anche se ha un equipaggio di nazionalità mista. Onorato, che effettua solo servizi di cabotaggio tra porti nazionali, è obbligato per legge a imbarcare solo equipaggio italiano. Entrambi godono di sgravi fiscali, ma Grimaldi risparmia più di Onorato sui costi di equipaggio imbarcando anche personale extracomunitario. Onorato quindi non può abbattere il costo del lavoro quanto Grimaldi e questo agli occhi del patron di Moby rappresenta un vantaggio immeritato. Una settimana fa ha quindi sollevato la questione, anche se in termini più retorici e opportunistici, facendo pubblicare un inserzione a pagamento su diversi quotidiani (tra cui Il Foglio). La risposta di Grimaldi è stata aggressiva: inaugurazione di una nuova linea, dichiarazioni del tipo “Ad ogni accusa di Onorato risponderemo con nuovi servizi” – l’ha detto recentemente il figlio di Emanuele Grimaldi, Guido – e una denuncia all’Antitrust da parte di due società di autotrasporto per un presunto boicottaggio di Onorato a danno di chi imbarca camion su navi “anche” di Grimaldi.
Si tratta, tuttavia, di due armatori che su linee sovrapposte godono di privilegi contrapposti. Onorato accusa Grimaldi di “giocare sporco” godendo di sgravi immeritati. Grimaldi a sua volta rinfaccia a Onorato i settanta milioni di contributi pubblici che Compagnia Italiana di Navigazione riceve ogni anno per garantire la continuità territoriale tra isola e terraferma, ereditata con l’acquisizione di Tirrenia. Una polemica contorta che ha alle spalle quasi vent’anni di regole internazionali e accordi sindacali.
Il rapporto 2014 della Bimco (quello del 2015 uscirà a breve) indica che la flotta mercantile mondiale ha bisogno perlomeno di altri quarantamila marittimi. C’è carenza di equipaggio nel mondo, insomma, e l’Italia è piena di marittimi senza lavoro. La domanda, in realtà, è per ufficiali che costano molto meno di loro. Una carriera da ufficiale in Italia è veloce, logorante e altamente remunerativa, o almeno lo era finché il meccanismo d’impiego non si è globalizzato. Un comandante italiano può ottenere uno stipendio netto di ottomila e cinquecento euro per quattro mesi di imbarco. Un terzo ufficiale fino a duemila e cinquecento. Ma è l’addetto alle macchine la chiave di volta. È la categoria meno qualificata e più numerosa dell’equipaggio di una nave mercantile e guadagna in media (considerando sempre una ponderata su tutt’e quattro i tipi di nave) milleottocentocinquanta euro. Essendo la componente più numerosa dell’equipaggio è chiaro che meno costeranno i macchinisti più i profitti saranno alti per la compagnia. Un traghetto tutto italiano, con diciannove membri di equipaggio a bordo, costa a un armatore 74,650 dollari al mese. Ma per una compagnia italiana internazionale che viaggia anche al di fuori dell’Italia, le opportunità di risparmio (e profitto) sono molto più alte se impieghi personale extracomunitario: un addetto di macchina di nazionalità filippina può costare fino a quasi la metà di uno italiano, poco più di novecento euro.
C’è fame di ufficiali, e sono tanti gli italiani freschi di accademia che aspettano di essere imbarcati. Per la loro formazione hanno pagato molto più delle scorse generazioni che non avevano bisogno di lauree e certificati per imbarcarsi. Il problema è che finché il loro “costo” resta così alto, con qualifiche decisamente più alte rispetto a una domanda mondiale che vuole figure più vicini a quelle dell’addetto alla sala macchine, e finché il loro mercato sarà ridotto a una piccola porzione del Mediterraneo (cioè lì dove gli armatori non hanno altra scelta che imbarcare personale italiano), per loro trovare lavoro sarà praticamente impossibile. (paolo bosso)
Leave a Reply