Arrivo al Teatro Nuovo con un po’ di ritardo. La folla che si accalcava fin dalle quattro davanti l’ingresso ora è dentro. Ma entrare non è facile, a causa delle persone rimaste sulla porta ad ascoltare. I posti a sedere sono esauriti. Sul palco ci sono quattro persone. Il più giovane è in piedi, ed elenca una serie di luoghi della città con lo stesso tono di una centralinista del radiotaxi. Seduti sono in tre: un altro giovane, una signora elegante vestita di rosso e un signore anziano, con i capelli bianchi lucenti e una cravatta, anche quella, rossa.
Quel signore è Antonio Bassolino, ex sindaco di Napoli, ex ministro del lavoro, ex governatore della Campania ed ex commissario per l’emergenza rifiuti. Ex dirigente del Pci, del Pds e del Pd. Bassolino è sul palcoscenico per un incontro preparatorio alle primarie del (suo?) partito, durante il quale si alterneranno, con un format che ricorda quello della Fonderia del Pd, giovani impegnati nel sociale e nel lavoro, imprenditori brillanti e il redivivo Nicodemo, che non vincerà l’oscar (per la coerenza) ma in un modo o nell’altro casca sempre in piedi.
Gli interventi che precedono Bassolino si articolano secondo un copione prevedibile. I personaggi sono: giovane democratico; esponente del terzo settore; giornalista che legge l’intervento con la cadenza di una poesia di Natale; ricercatrice precaria della periferia nord; esperta di periferie; giornalista mamma preoccupata per il futuro dei figli. Il secondo blocco è dedicato agli imprenditori, che ce la mettono tutta per comunicare alla platea il modo in cui sono riusciti a farsi strada “rischiando”. La loro aneddotica, almeno, rende la cosa meno noiosa rispetto alla prima parte. C’è Menniti, patron di Harmont&Blane, che si vanta di essere stato bersaglio per tre volte di una bomba dei Nuclei armati proletari. C’è un giovane startupper che si lamenta perché in un ufficio di un ente regionale gli impiegati hanno il martedì grasso di ferie. C’è la giovane architetto che tesse le lodi dell’opera di rammendo di Renzo Piano e dei suoi gruppi di studio sulle periferie.
Divincolandomi, riesco a trovare un posto a sedere nella parte alta del teatro. Lì ha preso parte chi vuole assistere all’incontro respirando un po’, scambiando qualche chiacchiera con gli amici, giochicchiando con lo smartphone, leggendo il giornale, dormendo. Distratto quanto loro è lo stesso Bassolino, che sbadiglia mentre fa finta di ascoltare – fanno eccezione un paio di interventi – le persone che si avvicendano sul palco. È chiaro che, a dispetto delle pretese di “ascolto della cittadinanza”, i giochi per le primarie, e quindi per l’elezione del sindaco, si fanno dovunque fuorché in questo teatro. Si fanno con i tesseramenti last-minute, aumentati a dismisura nelle ultime settimane attorno a una mezza dozzina di sezioni. Si fanno con le manovre interne, che guardano – più che a una tornata elettorale che molti nel Pd considerano già persa – al congresso cittadino, al rinnovamento dei vertici e addirittura alle elezioni politiche. Questo, comunque, gli avventori del Nuovo non lo sanno, o meglio fanno finta di non saperlo.
Anche perché tra loro ci sono tante vecchie glorie del tempo che fu, quei personaggi della classe dirigente cittadina che dopo la caduta del loro dominus sono riusciti a rimanere in sella, oppure hanno vivacchiato saltando da un consiglio di amministrazione all’altro, o hanno preso un’altra strada politica salvo poi celebrare, rispolverando le vecchie liste dei propri elettori, il ritorno del re. La differenza più rilevante, forse, è che oggi non arrivano nemmeno più quei trenta disoccupati che sarebbero entrati un tempo a far casino, probabilmente perché quelli che rimangono sono ancora storditi dalle manovre di cooptazione effettuate dalle istituzioni proprio negli anni del bassolinismo. Tutto il resto di quel tempo è lì: le mummie del “rinascimento” sono pronte ad affrontare con entusiasmo quella che rischia di essere una debacle elettorale catastrofica (ammesso che Bassolino vinca le primarie), e a farlo come ultimo atto di omaggio a un Napoleone invecchiato che cerca di tornare sul trono, sperando di restarvi per più di cento giorni.
Certo va dato atto alla banda che a vedere i giovani che gli si mettono in scia, viene quasi da rimpiangere loro. Basta sentir parlare i nuovi quadri del partito, le “buone pratiche” sociali e imprenditoriali che strizzano l’occhio al renzismo, persino i dirigenti nazionali under quaranta, per capire come mai sia stato necessario riesumare un politico condannato senza appello dalla sua stessa storia. E la dimostrazione più lampante di tutto ciò è l’intervento di Francesco Nicodemo. Proprio lui, l’uomo di Renzi a Napoli, il fedelissimo del rottamatore che tira la volata – esaltandone l’esperienza politica – a colui che, insieme a Vendola, rappresenta meglio la capacità della sinistra post-comunista a costruire sistemi politici il cui unico obiettivo a lungo termine è l’auto-sostenibilità.
Dopo Nicodemo, mentre il pubblico in sala comincia a risvegliarsi per l’aumentare degli applausi, tocca a Bassolino. Il comizio è poco incisivo, vago, compromesso dalla balbuzie che così forte non si sentiva dal ’93. La sua retorica è evocativa, ancorata al passato, si prende il merito di aver inventato le primarie, l’Ulivo, l’antimafia in Campania, lo sport come strumento di riscatto civile, forse pure il telefono e la lampadina. Tiene insieme senza un filo conduttore i post pubblicati su Facebook e Twitter negli ultimi mesi, calcando l’enfasi sulla nuova ossessione “buche stradali”, sulle strade buie e male illuminate, sul rapporto con il governo e sull’utilizzo dei fondi europei.
Ma quando l’uomo dalla cravatta rossa e la testa bianca inizia a parlare, alle sue spalle tre fotografi salgono sul palco per catturare la foto del giorno. Quella più rilevante lo ritrae con sullo sfondo una bandiera dei Giovani democratici e due striscioni che richiamano il coro del momento a supporto della squadra di calcio. Lui è di spalle, con la schiena troppo curva in avanti, a mostrare che se è vero che questa città non ha bisogno di un Masaniello, anche dei Borboni ne abbiamo abbastanza. (riccardo rosa)
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