Il 22 marzo viene notificato a qualche decina di persone un verbale che rende esecutivo il decreto di sequestro preventivo dell’intera area compresa tra i civici di via Brecce Sant’Erasmo 106 e 123, emesso già il 23 gennaio dalla procura di Napoli.
Le aree in questione sono proprietà privata di un’impresa edile e di una società di servizi immobiliari (Aedilia Srl e Ipi Spa) e sono occupate da circa dieci anni da due insediamenti composti prevalentemente da famiglie rom provenienti dalla Romania, ma anche da altri gruppi e persone non rom, alcuni africani, che hanno trovato in quei terreni liberi la possibilità di sopravvivere per circa dieci anni. I due “campi”, non autorizzati e privi delle forniture di base, sono cresciuti notevolmente negli ultimi tempi, anche a causa di una sorta di migrazione interna delle famiglie, che sono passate da un insediamento all’altro in seguito a vari sgomberi, da via Santa Maria del Pianto a Gianturco, da Gianturco a Ponticelli e viceversa. Si parla oggi di circa mille e quattrocento persone, di cui almeno quattrocento minori, inseriti con non poche difficoltà nei percorsi ministeriali di inclusione scolastica dei minori rom, sinti e caminanti. Si perpetua così l’eterna contraddizione – o forse illusione – di rendere sistematica la frequenza e garantire il “successo” scolastico senza affrontare l’assoluta precarietà dei contesti abitativi che rendono spessissimo, ormai è ampiamente dimostrato, il percorso scolastico di un piccolo rom una specie di corsa a ostacoli.
I rom condividono il territorio con famiglie napoletane e magazzini cinesi, un pezzo di strada che ora è interessato dai lavori di una ipotetica riqualificazione iniziata in autunno ma che per il momento conferisce un’aria ancora più fatiscente al tragitto. La convivenza tra le parti non è semplice, l’esasperazione per le condizioni complessive rende a volte insopportabile la vista dell’altro, soprattutto se l’altro sembra contribuire con la sua sola presenza alla desolazione generale. Gruppi di cittadini, organizzati in comitati civici, movimenti che hanno strutturato la protesta ormai da anni, chiedono a gran voce interventi, chiarezza, dignità, e hanno certamente il merito di aver messo in piedi un processo di partecipazione trasversale e ostinato, e anche di aver mediato in più di una situazione evitando che si scatenassero “guerre tra poveri”. L’assenteismo istituzionale e l’incapacità di fare interventi organici, trascinando per anni progetti, proposte, tavoli, scatena inevitabilmente piccoli o grandi rancori quotidiani sul territorio.
Il decreto di sequestro preventivo delle aree dove vivono i rom, che ha come conseguenza lo sgombero effettivo degli insediamenti, cioè delle cose e delle persone che entro trenta giorni devono liberare i terreni, pone l’amministrazione comunale di fronte al dilemma insolubile di dover collocare “improvvisamente” mille e quattrocento persone in una situazione dignitosa, o per lo meno alternativa. Gli stessi rom erano consapevoli di dover liberare l’area, e d’altronde le condizioni in cui versano gli insediamenti non piacciono a nessuno, tantomeno a quelli che ci abitano. Si ha però la consapevolezza di avere il diritto a non essere trattati come cose. Lo scorso luglio si è svolta la prova generale di quello che si sapeva già da anni sarebbe accaduto: lo sgombero di un altro terreno privato su cui vivevano circa quattrocento rom in via Galileo Ferraris, di fronte alla ex Manifattura Tabacchi, e le soluzioni alternative alla fine se le sono trovate in gran parte le famiglie stesse. Il Comune non è responsabile degli sgomberi, perché l’ordine in questo caso parte dalla Procura, ma è responsabile di non aver mai predisposto un sistema di accoglienza organico, anche nei casi in cui quanto sta accadendo era una certezza e non una remota probabilità. Ed è responsabile anche la Regione, in quanto ente che veicola i fondi europei, che se ha attivato un tavolo tecnico per l’applicazione della Strategia nazionale di inclusione per rom, sinti e caminanti, come era suo preciso obbligo fare, sembra non avere la minima idea di situazioni esplosive come quella di Gianturco o della situazione generale dei rom in Campania, da Scampia a Capua, a parte le esternazioni del governatore in un’ottica solo securitaria e di “bonifica” dei territori, senza badare alla storicità delle presenze in molti territori, al grado di convivenza e inclusione che in molti casi è un dato significativo, ai minori che sono nati qui e che sempre più frequentano le scuole, insomma a tutta la complessità di un fenomeno che andrebbe governato come si deve.
In questi giorni a Gianturco i cittadini tutti, rom e non rom, i comitati, gli attivisti si stanno incontrando per costruire una rete che porti alla luce quello che sta accadendo, per chiedere una proroga alla Procura almeno fino alla fine della scuola – il Comune lo ha richiesto già, ma le risposte non sono state positive –, per raccontare alla città e agli osservatori internazionali come si stanno svolgendo i fatti, per cercare di evitare uno sgombero che in assenza di criteri, supporti, soluzioni soddisfacenti per tutti sarà traumatico e lesivo della dignità delle persone.
È in costruzione una mobilitazione a cui sono tutti invitati a partecipare, per avviare e consolidare percorsi di riappropriazione e trasformazione degli spazi e di cittadinanza attiva, la questione infatti abbraccia tematiche ampie che riguardano tutti (riqualificazione spazi, riscatto delle periferie, diritto all’abitare, diritto a una vita dignitosa). Resta inoltre per tutti un interrogativo e un’occasione per riflettere e ripensare quale “modello”, quale piano integrato adottare, quando si vorranno affrontare i nodi maggiori che stanno a monte della questione rom – status giuridico, opportunità di accesso al lavoro, connessioni di reti e relazioni territoriali – per consentire alle persone di decidere autonomamente della propria vita e uscire dalla condizione di vittime e/o assistiti. (emma ferulano)
Leave a Reply