
Nel 1987, durante un seminario sull’Aids, l’attivista e saggista Larry Kramer chiede a gran voce alla vasta platea: «Vogliamo creare una nuova organizzazione dedicata all’azione politica?». Dal pubblico si levano centinaia di fragorosi «sì» e il 24 marzo dello stesso anno, duecentocinquanta persone si riuniscono a Wall Street e a Brodway per reclamare un maggiore accesso ai farmaci contro l’Aids e una politica coordinata per combattere la malattia. Siamo a New York e parliamo di Act Up, sigla che sta per Aids Coalition to Unleash Power. Di lì a poco, realtà autonome locali, ugualmente basate sull’azione diretta, sarebbero nate anche in Europa.
A trent’anni da quell’evento, nel 2017, il regista Robin Campillo rimette in scena alcune vicende dei militanti di Act Up Paris durante i primi anni Novanta, quando di Aids si moriva ancora tantissimo. I “120 battiti al minuto” della musica house, fanno da titolo e colonna sonora a questo racconto di emozioni, fluidi e cronaca nuda, un ritmo “insieme sinistro e festoso”, che a detta del regista rende bene l’atmosfera del tempo. L’inazione dei governi, i ritardi delle case farmaceutiche, una dolorosa ignoranza giovanile e l’ostinata ricerca di informazione e sensibilizzazione, risalgono in gola come un boccone mal digerito. Campillo mette a frutto la lezione di Laurent Cantet, di cui è stato collaboratore, usando la medesima grazia per descrivere la rabbia, la fatica, le azioni collettive, i gesti quotidiani del dolore, la morte. Se tutto è scandito dalla malattia, la malattia deve stare al centro di tutto, in comune.
Il film di Campillo stimola domande più che attuali. Sono passate poche decadi, ma la distanza da allora sembra marcare la tara di un pregiudizio che fu anche l’ostacolo intorno alla ricerca di una cura. I numeri dell’Aids non sono mai riusciti a raccogliere l’attenzione riservata ad altre tragedie sanitarie e anche la storia dell’attivismo contro l’Aids è passato sottotraccia. Nell’immaginario prevalgono narrazioni individuali, favole nere o storie di personaggi famosi, di sicuro più rappresentativi dello sforzo collettivo di politicizzare la malattia.
DIFFERENZE E AFFINITÀ
L’epidemia di Hiv in passato e quella di Sars-CoV-2 oggi sono per molti versi simili, per altri differenti. L’Hiv è anch’esso il risultato di un salto di specie, e la sua diffusione è devastante da un punto di vista sociale in comunità già vulnerabili, ma le modalità di contagio hanno conseguenze differenti. Una descrizione più accurata arriva da Didier Lestrade, scrittore e attivista, che ha vissuto in prima persona le condizioni di cui stiamo parlando: “La popolazione è spaventata e confinata, ma questa paura non ha nulla a che fare con il panico visivo causato dai primi casi di Aids e la loro condizione di appestati”. Inoltre: “Gran parte della ricerca sull’Aids ha sofferto a lungo di budget ridotti, mentre la malattia Covid-19 beneficia di un ‘a qualunque costo’ applicato a una dichiarazione di guerra medica e sociale. Tuttavia, l’attuale virus presenta punti di angoscia come l’impossibilità di visitare i malati in ospedale o la limitazione del numero di persone a un funerale che non hanno precedenti”. Se parliamo di similitudini: “La scarsità di mascherine, kit di screening, l’assenza di trattamenti, il vaccino e le incertezze sulle modalità di contaminazione… Tutto ciò ricorda l’Aids. E la fonte della crisi rimane la stessa di quarant’anni fa: scarsa anticipazione da parte dei paesi occidentali e mancanza di coordinamento da parte degli stati che adottano strategie diverse”.
Oggi come negli anni Ottanta e Novanta, una miscela complessa di sentimenti esplode nella società. L’opinione pubblica è stordita dalla battaglia tra numeri e interessi politici ed economici, e l’ipertrofia mediatica ne accentua l’instabilità. Era l’inizio della pandemia e in molti denunciavano ancora l’esagerazione e la manipolazione, convinzioni polarizzate prevalentemente a destra, come nelle manifestazioni dell’altright statunitense o nelle proteste dei quartieri alti di Madrid, che oggi chiedono la riapertura e dubitano della veridicità dei numeri. C’è anche chi si spinge oltre, denunciando il privilegio che da occidentali avremmo nel preoccuparci di un virus e non della devastazione che ogni giorno tocca i paesi più poveri. L’ondata virale, in molti stati non attrezzati per sostenere la crisi sanitaria, potrebbe conoscere il suo picco soltanto nei prossimi mesi: senza una pressione politica forte, il nostro dovere di proteggere questi paesi verrà eluso, proprio come è successo per l’Hiv.
IL CORPO MALATO
Durante l’epidemia di Hiv il corpo malato tocca, forse per la prima volta, un livello politico. I corpi di attivisti sieropositivi sono corpi attivi anche se malati, sono costretti a inventare nuove forme di presenza, anche quando non immediatamente visibili nello spazio pubblico. L’attivista sano e sempre in prima linea è un ideale che non può essere soddisfatto, proprio come in Teoria della donna malata di Joanna Hedva (tradotto da Les Bitches), che restituisce voce alle forme di militanza altre, partendo dai corpi malati e arrivando a tutti i soggetti marginalizzati: “Ho iniziato a riflettere su quali siano le modalità di protesta concesse a chi è malat*: avevo l’impressione che molte persone per le quali la protesta Black Lives Matter è particolarmente rilevante, forse non potevano essere presenti ai cortei, perché erano imprigionate da un lavoro, dalla minaccia di essere licenziate se fossero andate alla manifestazione, o dall’incarcerazione vera e propria, e ovviamente dalla minaccia della violenza e della brutalità della polizia – ma anche a causa della malattia o della disabilità, o perché si stavano prendendo cura di qualcun* con una malattia o disabilità”.
Impossibilitata a muoversi spesso da una malattia cronica, Hedva scrive: “Così, mentre me ne stavo distesa a letto, incapace di sfilare in corteo, di tenere in mano un cartello, di gridare uno slogan per farmi sentire, o di essere visibile in qualsiasi altra forma tradizionale come essere politico, ha preso forma la domanda centrale della Teoria della donna malata: come si fa a lanciare un mattone contro le vetrine di una banca se non puoi alzarti dal letto?”.
E se questa impossibilità è determinata dallo stesso contesto, le domande si fanno ancora più pressanti. La depressione, l’ansia, il cancro, le presenti e future zoonosi, le conseguenze del cambiamento climatico, sono solo frammenti di un discorso ampio in cui le responsabilità sono chiare e precise e richiedono al corpo malato e alla collettività che se ne prende cura, di riconoscerle. È ciò che ritroviamo nelle parole di Audre Lorde, che nel 1986 scriveva: “Ovviamente il cancro è politico! Basta guardare quante delle nostre compagne sono morte di questo negli ultimi dieci anni! […] La nostra battaglia sta nel definire la sopravvivenza in modi che siano per noi accettabili e ci diano nutrimento, possiedano sostanza e stile. Sostanza. Il nostro lavoro. Stile. Fedeli a noi stesse. […] Come sarebbe vivere in un posto dove la ricerca di definizione all’interno di questa parte cruciale delle nostre vite non fosse circoscritta e frazionata dall’economia della malattia che regna in America? Qui la prima considerazione sul cancro non è: cosa vuol dire questo nella mia vita, ma: quanto costerà?”.
Il corpo malato è per antonomasia un corpo improduttivo, inservibile, ma il Sars-Cov2 mette in crisi questo ordine di idee. Il rischio del contagio investe, per esempio, anche chi è essenziale alla catena produttiva, il virus si muove asintomatico e in questo modo sfugge alla costruzione lineare dello stigma intorno a categorie precise, come successe per l’Hiv. Ci costringe a riconsiderare i concetti di sanità e malattia e i modi di occupare gli spazi e di rivendicare, per esempio, la sicurezza sul lavoro. Il confinamento si allenta, ma la repressione nelle strade è ancora una minaccia e il distanziamento fisico compromette le forme tradizionali di espressione del dissenso. I governi guadagnano tempo, consapevoli di dover disinnescare, in un prossimo futuro, un malcontento di cui ancora ignorano le forme e di cui temono l’entità.
Questo spazio reclamato coesiste con l’urgenza di aprire spazi nuovi, immaginare forme di lotta finalmente più inclusive e visionarie, partendo dal principio che ci ammaliamo non solo esponendoci a un virus, ma a qualsiasi espressione di una società capitalista. È ancora Hedva a sottolineare ciò che per i malati di Aids era già molto chiaro: “Il capitalismo, per restare in vita, non può farsi carico delle nostre cure: la sua logica di sfruttamento esige che qualcun* di noi muoia”. Il sapere medico, le direttive istituzionali e gli interessi delle case farmaceutiche sono fili intrecciati e uno spazio ulteriore che sarebbe necessario aprire è quello dello studio e della divulgazione autonoma e indipendente.
L’AUTODIFESA SANITARIA
La base di Act Up era fortemente impegnata sui trattamenti. Ore e ore di autoformazione sui medicinali e sulla chimera dei vaccini, impegnavano i militanti in uno sforzo che spesso li lasciava stremati: gli incontri con le case farmaceutiche andavano preparati attentamente, il trattamento umano che ricevevano era indecente, inoltre i risultati andavano comunicati nelle varie assemblee in un linguaggio accessibile, cosa che comportava fatica. Ma se le ricerche biomediche sono oggi più trasparenti, lo dobbiamo anche a quella necessità di riconoscere come centrale l’importanza dell’autodifesa sanitaria.
I funerali dei militanti potevano diventare atti politici: le ceneri venivano sparse durante i banchetti e gli incontri di case farmaceutiche, a ricordarci che gli interessi dei capitali durante le pandemie non scompaiono come per magia, anzi, si fanno più insidiosi. Il drammatico aumento delle spese militari nelle ultime settimane rende vitale questa consapevolezza: siamo davanti a governi equipaggiati oltremodo per una guerra, ma incapaci di azioni anche banali di cura, come fornire mascherine alla popolazione o garantire l’accesso universale e gratuito a un eventuale futuro vaccino.
Se la guerra è l’unica cosa che ha importanza, sarà bellico anche l’approccio a una crisi sanitaria, come infatti sta accadendo. Chi comanda, ma anche chi è chiamato ad analizzare e a immaginare soluzioni, è sempre l’uomo bianco benestante, etero, abile, da una posizione di potere, che, nella maggior parte dei casi, non sa riconoscere la centralità del concetto e della pratica della cura. La responsabilità e il lavoro che la cura comporta reclamano il centro del discorso, tenendo in conto l’ecologia politica e l’ecofemminismo, analisi davvero adeguate a leggere i tempi.
I concetti “abilisti” della produttività a tutti i costi e della crescita esponenziale hanno dimostrato ampiamente tutte le disuguaglianze e l’insalubrità che si portano dietro: siamo malati di estrattivismo, di deforestazione, malati perché il cibo e l’acqua che ingeriamo sono avvelenati, e la pandemia attuale è soltanto un assaggio di ciò che significherà il cambiamento climatico. Contare solo su corpi sani e sull’esibizione di forza per le nostre rivendicazioni, significa ignorare tutto questo. La solidarietà e la pratica di un mutualismo conflittuale, a partire dai margini, dagli ultimi, dai corpi martoriati di chi migra, di chi si ammala di lavoro, di chi incuba le conseguenze di politiche scellerate, è ciò che può contribuire a guarire le nostre comunità. E quando arriviamo a percepire la misura della tossicità che le investe, capiamo che il diffondersi di virus sconosciuti è soltanto uno dei sintomi di questa malattia globale. (giusi palomba)
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