Sono passati cinque anni dall’addio delle truppe Nato dalla ex base di Bagnoli, ma il futuro dell’enorme area che domina il quartiere flegreo è ancora un punto interrogativo. La Fondazione Banco Napoli per l’Assistenza all’Infanzia (proprietaria dei suoli) è a un passo dal fallimento, non riuscendo quasi più ad assolvere al proprio compito: il supporto ai minori “a rischio devianza sociale”. I semiconvitti che l’ente ha finanziato per decenni, infatti, si sostenevano per lo più grazie agli affitti che il Patto Atlantico pagava alla Fondazione per poter soggiornare a Bagnoli. Tanto per avere un’idea delle condizioni dell’ente, basta pensare che questo è passato dal destinare alle opere di assistenza una cifra crollata in quattro anni da quasi due milioni a 88mila euro. Eppure sul surreale sito Area Ex Nato, che propaganda un Parco della Conoscenza e del Tempo libero che non esiste, troneggiano da tempo gli “affittasi” degli edifici, come se si stesse proponendo la locazione di un basso al centro storico o di un locale commerciale.
La storia della ex base di Bagnoli è ormai nota, scritta e riscritta ogni volta in cui l’area si guadagna un paio di colonne sui quotidiani cittadini, di solito in occasione di qualche annuncio poco credibile del sindaco di Napoli o del presidente della Regione. Collegio per i ragazzi di strada (solo per qualche giorno) durante il fascismo; base per le truppe italiane, poi tedesche, poi alleate, durante la guerra; ricovero per i profughi, negli anni successivi; punto strategico e base Nato più grande di Italia, tra la metà degli anni Cinquanta e il 2013. Da quel momento, il vecchio Collegio Ciano resta vuoto, fatta eccezione per un paio di scuole private, una parte degli impianti sportivi utilizzati dalla Amatori Rugby e una piscina scoperta con annesso risto-bar. Delle modalità di fruizione di questi spazi abbiamo già raccontato lo scorso anno, e la situazione non è cambiata di molto, in questi dodici mesi.
Nel corso degli anni la Fondazione si è distinta per una gestione “poco lungimirante” delle proprie risorse. Dopo decenni di conduzione commissarial-prefettizia, il primo consiglio di amministrazione (insediatosi nel 1999) viene sciolto per irregolarità economiche e amministrative: stipendi gonfiati, consulenze generose, creazione di due “sottofondazioni”. Da quel momento si alternano cinque commissari (Lo Presti, Genovese, Sciarelli, Sorrentino, Parente), tutti obbligati a fare i conti con l’addio delle truppe Nato, ma nessuno capace di traghettare l’ente verso il futuro. È un commissariamento, quello imposto da Bassolino e poi continuato con Caldoro e De Luca, che doveva durare dodici mesi, ma si prolunga per tredici anni, con conseguenze tragiche: nessuno si preoccupa realmente (fatta qualche eccezione per Lidia Genovese, che prova a stipulare un protocollo di intesa con il Comune, e che non a caso verrà silurata da De Luca) di andare oltre il compitino, e provare a immaginare un futuro ambizioso, per uno spazio che con i suoi duecentodiecimila metri quadrati ha potenzialità enormi per la città. Nel 2017 si insedia un nuovo c.d.a., ridimensionato: non più nove membri ma cinque, di cui due nominati dalla Regione, uno dal Comune, uno dalla Fondazione e uno dalla Curia. A presiederlo è Maria Patrizia Stasi, che vanta rapporti personali e politici di prim’ordine con il presidente De Luca.
L’ostacolo principale, dal punto di vista della Fondazione, è la difficoltà nell’affittare gli edifici, che avrebbero bisogno di una importante ristrutturazione. La FBNAI lascia intendere di poter trovare dei locatari (anche se offerte ufficiali non sono mai arrivate), ma che a fermare il tutto sarebbe la mancata approvazione del Piano urbanistico attuativo da parte del Comune. Il Pua ufficializzerebbe l’intesa del Masterplan, un documento del 2016 che metteva d’accordo, almeno in grandi linee, Comune e Fondazione. Il Masterplan, però, non è che un “preliminare” del Pua: il dettaglio delle questioni più rilevanti (come l’utilizzo pubblico dell’area, genericamente indicato al 50% delle volumetrie) è rimandato al Piano, che avrebbe dovuto essere approvato entro diciotto mesi dalla promulgazione del “preliminare” e senza il quale la Fondazione non può procedere alle singole locazioni, a meno che non intavoli di volta in volta (come accaduto per gli spazi finora concessi) una trattativa con palazzo San Giacomo. Dal Comune, però, pur ammettendo il ritardo, lamentano il mancato invio da parte della Fondazione di alcuni documenti propedeutici all’approvazione del Pua. Sul piano politico, in ogni caso, il fallimento è evidente, e non risparmia nessuno.
Prima di tutti il Comune di Napoli, che ha progressivamente abbassato l’asticella negli anni, rispetto alle pretese di utilizzo pubblico dell’area. Per mesi, dopo l’abbandono delle truppe, e spinto dalla pressione dei movimenti della zona flegrea, de Magistris aveva parlato di “restituzione dell’area Nato alla città”, di “cittadella per i giovani”, di “napoletani che si riprendono il territorio”. La solita campagna elettorale fuori stagione, dal momento che il sindaco ha dovuto poi fare i conti con Fondazione e Regione, che avevano tutt’altre idee. E l’ha fatto, come già accaduto in passato, retrocedendo dai suoi fumosi proclami: prima, stipulando un protocollo di intesa in cui si riconosceva il diritto della Fondazione a lavorare per “lo sviluppo e l’affermazione delle potenzialità imprenditoriali del complesso”; poi con il Masterplan, che limita l’utilizzo pubblico al 50% degli spazi (senza grossi vincoli per il restante 50%), in modalità tra l’altro ancora molto vaghe.
Poi la Fondazione, che non è riuscita a raccogliere la sfida di ripensare quello spazio per restituirlo alla città, che dal suo utilizzo è stata estromessa da sempre. Se ci fosse stata la volontà, l’ex Nato avrebbe potuto diventare un’area aperta al quartiere, uno spazio per i giovani, per lo sport, per le scuole, una piazza per eventi musicali, un incubatore di sale di registrazione, teatri, spazi per lo svago e la cultura, sostenibile con la concessione ai privati di piccoli spazi vincolati, l’affitto di edifici a campus universitari, o con qualsiasi altra modalità capace di creare risorse senza compromettere la funzione di servizio per bambini e adolescenti. La Fondazione però, ossessionata dalla sopravvivenza economica (obiettivo che comunque non è riuscita a raggiungere) ha preferito lavorare allo spezzettamento dello spazio, procedendo nell’affittare i singoli lotti, raccogliendo risorse insufficienti, e perdendo in compenso la sfida di cui sopra. Si è scelto, insomma, di pensare ai successivi venti mesi piuttosto che ai successivi venti anni.
Infine la Regione, che ha cavalcato una serie di proposte irrealizzabili (dallo spostamento degli uffici dell’ente al villaggio Apple; dal parco sportivo dell’olimpionica Vezzali fino alle Universiadi, il cui svolgimento è in dubbio a causa della solita incapacità amministrativa) e che ha sempre messo i bastoni tra le ruote alle deboli velleità di ripensamento dello spazio. La Regione, però, ha più di una ragione per sperare che la Fondazione esali in fretta l’ultimo respiro: con una delibera del 2015, infatti, il governatore Caldoro ha modificato il regolamento che prevedeva, in caso di estinzione di enti di questo tipo, il passaggio delle loro proprietà al Comune di appartenenza, trasferendo la loro “eredità” alla Regione. Un atto contro il quale palazzo San Giacomo non è mai ricorso, e la cui legittimità non è stata mai posta in discussione, tanto da lasciare il sospetto che il passaggio alla Regione possa essere accolto senza patemi dall’amministrazione comunale. Certo sarebbe una patata bollente in meno per de Magistris e la sua armata Brancaleone, che però rinuncerebbe, per manifesta incapacità, a una delle opportunità più grandi che ha avuto la città negli ultimi anni. (riccardo rosa)
Leave a Reply