(Ibidem), dicembre 2017
da: (Ibidem / Planum Readings)
«L’antropologia è solo pettegolezzo! Dopo anni come parrucchiera sono la miglior antropologa che ci sia», dice una giovane appartenente al gruppo di lavoro composto da ricercatori, attivisti e abitanti impegnati nello studio del quartiere Bon Pastor nello scorso decennio. Tra questi c’è anche Stefano Portelli, antropologo culturale, che nel 2003 approda al Bon Pastor come educatore in una scuola elementare (Rossomando et al., 2004) e si trova nel mezzo di un processo di trasformazione urbana di quel quartiere di case economiche (casas baratas) sorto alla fine degli anni Venti al margine orientale di Barcellona. Nel 2004 conduce insieme al gruppo interdisciplinare Periféries Urbanes un’inchiesta porta a porta sulle opinioni degli abitanti rispetto alle demolizioni previste dal Comune e da allora, per i successivi dieci anni, continua a studiare il Bon Pastor. Educatore, ricercatore indipendente, collaboratore dell’Istituto Catalano di Antropologia, abitante dei dintorni ed infine del quartiere stesso, Portelli indaga la complessità del territorio e delle posizioni degli abitanti, irriducibili nella realtà alla sola distinzione tra favorevoli e contrari alle demolizioni e al trasferimento.
Il Bon Pastor è uno dei quattro insediamenti realizzati dal Patronato Municipal de la Vivienda, ente istituito dal Comune di Barcellona nel 1927 per far fronte alla crescente domanda abitativa della popolazione confluita verso la città, a partire dalla fine dell’Ottocento, dalle aree marginali del Sud della Spagna.Attratti dall’industrializzazione, i nuovi abitanti si insediarono in un primo tempo nel centro storico e in aree ancora poco urbanizzate, come il Montjuïc, dove nel 1929 si svolse l’Esposizione Universale. Il sovraffollamento del centro, l’avanzare dei lavori per l’Expo eil crescente fermento politico degli strati più popolari furono tra le cause del trasferimento voluto dalle autorità di molti immigrati verso la periferia. I quattro quartieri di casas baratas che avrebbero dovuto ospitare gli sfollati presentavano tratti comuni: situati prevalentemente a grande distanza dal centro, erano composti da case basse, bianche, disposte lungo strade parallele contrassegnate da numeri e cinte da muri sorvegliati dalla Guardia Civil, secondo uno schema che richiama ‘l’urbanistica del disprezzo’ (Brunello, 1996).
La strada, concepita dai progettisti e dalle autorità come spazio del controllo, diventa invece luogo di socialità grazie alla presenza di una variegata popolazione, un “miscuglio” (barrecha) di gitani, migranti del sud e catalani, che dà luogo a un’insolita vivacità politica e culturale, come ricostruisce Portelli attraverso le voci degli abitanti, a distanza di quasi ottant’anni dalla nascita del Bon Pastor.L’autore riscrive la storia dall’interno, alternando fatti realmente accaduti a miti. C’è chi parla dell’eredità di una marchesa che avrebbe lasciato le case agli abitanti e chi fa risalire la costruzione delle abitazioni ai materiali avanzati (materiales sobrantes) dell’Esposizione Universale del 1929. Lontani dalla realtà dei documenti, i miti esprimono convinzioni e frustrazioni degli abitanti, divisi tra l’orgoglio di una discendenza nobile che non riconosce l’autorità del Patronato e il sospetto di essere “avanzi” della città. Le percezioni contrastanti degli abitanti tornano d’attualità in occasione del progetto di trasformazione messo a punto dal Comune alla fine degli anni Novanta e realizzato a partire dal 2007. Mentre attivisti e autorità promotrici dell’intervento insistono sulla mancanza di risorse nel quartiere, dividendosi rispetto alla necessità del progetto, gli abitanti si presentano verso l’esterno spesso come vittime in attesa di un aiuto, ma che in molte occasioni si percepiscono come soggetti attivi resistenti e memori delle lotte passate.
Dal mancato incontro tra le due narrazioni e dall’incapacità di esprimere una posizione unitaria,emerge un conflitto irrisolvibile. La conflittualità, tema centrale del libro, è studiata in relazione allo spazio e alla storia del quartiere. La permeabilità tra casa e strada, lamentata da alcuni come mancanza di privacy e occasione di pettegolezzi, si rivela anche come momento di socialità e dispositivo di (auto)gestione dei conflitti. Portelli osserva lo svolgimento delle liti, che hanno inizio normalmente in strada e attirano curiosi provenienti dalle case circostanti: i litiganti vengono circondati da altri abitanti (corrillo), il conflitto diventa teatro e nella maggior parte dei casi trova una risoluzione senza l’intervento esterno. Nei bambini il fenomeno è ancora più evidente, soprattutto se li si confronta con i coetanei di altri quartieri. Questa “etnotecnica”, o risorsa culturale della comunità, entra in crisi quando viene messa in discussione la forma spaziale da cui essa trae origine: il conflitto sulla demolizione delle case non riesce ad essere gestito e gli abitanti si dividono su posizioni polarizzate, tra favorevoli e contrari al progetto.
Fonti scritte e orali vengono raccolte per ricostruire le vicende storiche del Bon Pastor, le retoriche che lo hanno investito e le narrazioni prodotte al suo interno dal momento della sua fondazione fino al presente.La ricerca mira a contribuire alla costruzione di un discorso critico sull’intera città di Barcellona nel momento in cui questa si afferma a livello internazionale come capitale della partecipazione e dell’inclusione. Attraverso lo studio del Bon Pastor l’autore solleva alcuni interrogativi sulla coerenza delle reali politiche urbane rispetto alle retoriche dichiarate dalla pubblica amministrazione e prese a modello da altre città europee.
Il libro si inserisce nel dibattito sul displacement (Zucet al., 2016; Leeset al., 2015; Holston, 2008), evidenziando la complessità e le contraddizioni tipiche del tema, dovute anche al mutamento delle aspirazioni della popolazione, che in parte fa proprie le retoriche dominanti (Alkhalili, 2017). Per l’attenzione alla marginalità delle casas baratas e di chi le abita, il libro si avvicina ad alcune ricerche sugli insediamenti rom (Ambrosini et al.,2007; Brunello, 1996; Solimano et al., 2014).Portelli rivendica la necessità dello sguardo antropologico nello studio della città occidentale, in continuità con una tradizione ormai consolidata di etnografia urbana (Hannerz, 1980), prestando particolare attenzione al tema della casa (Lazzarino, 2017).
La scelta esplicita di non disgiungere ricerca e vita personale, riportando questo intreccio nel libro, permette di superare la “cospirazione del silenzio” cui sono soggette talvolta le ricerche di taglio antropologico (Fabietti et al., 2002). In merito al linguaggio scelto, il testo ha il pregio di rendere accessibili i contenuti a un pubblico di non addetti ai lavori, mantenendo saldi il rigore metodologico e l’intenzione politica, come è avvenuto in recenti esperienze di collaborative ethnography (Rappaport, 2008) svolte spesso al di fuori della cornice accademica (Immaginariesplorazioni, 2012).Il lavoro sul linguaggio è esito anche dell’adattamento per un pubblico italiano del libro, già edito in catalano e in castigliano, ad opera di Monitor edizioni, giovane casa editrice nata dall’esperienza decennale di un giornale di inchieste sociali: Napoli Monitor.
Rimangono irrisolti alcuni temi: non è chiaro se il vero elemento di conflitto consista nella demolizione delle case e nella distruzione di uno spazio urbano “orizzontale” o piuttosto nell’aumento degli affitti‒fino a sei volte più cari ‒dei nuovi appartamenti realizzati negli edifici pluripiano. L’assenza di chiarezza potrebbe indebolire l’intento politico che l’autore dichiara di voler perseguire, ma al tempo stesso potrebbe indurre il lettore a riflettere sula compresenza,non inusuale in processi di trasformazione di questo tipo, tra diversi elementi di conflittualità. Nella narrazione si sente la mancanza delle voci e delle aspirazioni dei giovani, ma l’autore stesso lo riconosce, dichiarando l’impossibilità di trattare il tema in modo approfondito in questa sede.
Pur leggendo con interesse, rabbia ed empatia le pagine sul trauma degli abitanti costretti ad abbandonare una forma urbana e una socialità “orizzontali”, la proposta dell’amministrazione di localizzare i nuovi edifici in prossimità delle casas baratas in corso di demolizione appare preferibile rispetto a situazioni in cui il displacement si è tradotto in trasferimenti in località distanti, con la conseguente perdita di relazioni di prossimità e di possibilità di lavoro, che hanno provocato fenomeni di impoverimento, marginalizzazione e violenza (Desaiet al., 2011; Pessina, 2015).
Nonostante alcune difficoltà di lettura per chi non abbia alle spalle una formazione antropologica o non sia stato coinvolto nelle vicende narrate,il libro è un documento importante, esito di una ricerca collettiva, interdisciplinare e in buona parte indipendente, sull’attuale fase di transizione di Barcellona, osservata e raccontata attraverso lo studio di un caso “marginale”, che ricorda a chi è impegnato negli studi urbani la necessità di fare i conti, ancora una volta, con la distanza tra piano e bisogni (Tosi, 1984). (gloria pessina)