«Molte delle cose che diremo già le sapete, ma noi vogliamo farle venire alla luce una a una. Le emozioni sono pericolose se rimangono sepolte, e non vogliamo che ci portino a commettere degli errori». È sabato mattina e siamo al “laboratorio di gestione delle emozioni” organizzato dal Comité de Defensa de la República del quartiere. I CDR sono nati l’1 ottobre, il giorno del referendum per l’indipendenza, come “comitati di difesa del referendum”, per assicurare che le scuole dei diversi quartieri rimanessero aperte per le votazioni, nonostante le minacce della polizia. Il nome richiama gli antichi comitati antifascisti sorti in diversi quartieri di Barcellona dopo il golpe del ‘36, anch’essi “de defensa”; quelli di oggi però non organizzano assalti alle caserme o distribuzione di armi, sono piuttosto nodi locali di incontro, dibattito e scambio di informazioni, nonché luoghi di mutuo appoggio, condivisione di emozioni, contenimento dell’ansia collettiva.
Una ventina di persone, tra i venticinque e i cinquant’anni, sono sedute in cerchio ad ascoltare le due organizzatrici. «Pensiamo alla rabbia: in questi giorni l’abbiamo sentita più che mai. Potremmo non essere abituati. La violenza subita è stata tanta, ma proprio per questo non dobbiamo rispondere con altra violenza». Non è certo il primo laboratorio che conducono, durante questi mesi di crisi; con la naturalezza di chi è abituato a farlo, ci dividono in piccoli gruppi con il compito di raccontarci come abbiamo vissuto questi ultimi due mesi. «Vengo da un paesino dell’Aragona – dice una ragazza sui trent’anni nel mio gruppo –, lì si parla catalano ma quasi tutti s’identificano con lo stato spagnolo. Dal primo ottobre ho litigato con tutti i miei amici e parenti: non riescono a capire che cosa stia succedendo qui, la stampa spagnola li istiga contro di noi». Un’altra ragazza, più grande: «L’1 ottobre mia figlia ha compiuto un anno. È stato davvero difficile combinare lavoro e maternità con la voglia di partecipare a tutte le manifestazioni. Ma l’11 dicembre andrò a Bruxelles a manifestare, abbiamo già organizzato le macchine».
Barcellona, a fine novembre, è quella di sempre. Ci sono certamente più bandiere del normale appese ai balconi, e più manifestazioni per le strade; forse un po’ meno turisti. Ma in strada tutti parlano di politica. Basta una passeggiata per sentire dieci opinioni diverse, tutte articolate e complesse, sui fatti del primo ottobre, su Puigdemont, sui prigionieri politici e sul futuro cupo o speranzoso che attende la Catalogna. L’indipendenza non è certo un fulmine a ciel sereno, questa città è abituata alle mobilitazioni, e tra i milioni di persone che hanno riempito le strade in questi mesi, moltissime avevano già manifestato con gli Indignados, nei movimenti di lotta per la casa, contro le riforme sul lavoro e i tagli alle spese pubbliche, o a favore dei migranti nella grande manifestazione di quest’estate. Le manifestazioni del 3 ottobre e dell’11 novembre, però, sono state un’altra cosa. La mobilitazione per il referendum è stata così intensa, la reazione dello stato spagnolo così violenta, che molti hanno iniziato a sostenere il “processo”, come viene chiamato, anche solo per protesta contro Rajoy, il PP, il PSOE – contro lo stato spagnolo, insomma. E non si trova una sola parte di città in cui non se ne parli in continuazione.
Finito il laboratorio, infatti, continuiamo a parlarne al tavolo di un bar. Mentre una ragazza cinese porta i caffè, discutiamo con cinque persone: cinque opinioni diverse. La più catalana del gruppo, architetta, è totalmente contraria al partito di Puigdemont; un’altra, urbanista di Siviglia, sostiene invece che Puigdemont è l’unico politico che sta provando a rispettare il suo mandato elettorale: seppure a malincuore (non ha mai votato in vita sua) deve ammettere che le piace. Il terzo, architetto tedesco a Barcellona da quasi vent’anni, è terribilmente critico con il “processo”, che considera un trucco per distogliere l’attenzione pubblica dalle questioni sociali; come anarchico, poi, non può appoggiare la creazione di un nuovo stato. La quarta, traduttrice catalana, anarchica anche lei, trova corretta la posizione del sindaco Ada Colau, che invece la sivigliana considera assurdamente ambigua. Ma tutti hanno partecipato alle manifestazioni; hanno difeso i seggi del loro quartiere, anche se non necessariamente per votare; hanno scioperato il 3 ottobre e l’11 novembre, alcune di loro hanno esultato davanti al Parlamento quando è stata proclamata l’indipendenza, e continuano a parlarne da due mesi. Noi siamo appena arrivati e vogliamo sapere tutto, e loro non sembrano affatto stanche di parlarne.
La sera ci ritroviamo in un piccolo ristorante del Raval gestito da un conosciuto cuoco-scrittore uruguayano, a Barcellona da decenni. Quando nominiamo l’indipendenza, esclama: «Non vogliamo altre frontiere! Non vogliamo bandiere! Io sono un cittadino del mondo». Il cameriere, romeno, conferma, bofonchiando qualcosa di conclusivo ma per noi incomprensibile. Un signore dalla barba incolta ci chiama da un tavolo: è un collezionista, sta trafficando con alcune buste di vecchie monete. Dopo averci mostrato le monete ci dice, quasi sottovoce, in spagnolo: «Non gli date retta, non ha capito niente. Qui le frontiere non c’entrano. Stiamo cercando di liberarci della famiglia reale. Io fonderò un partito che si chiamerà ‘Catalani per l’Europa’». E ci accompagna in piazza Sant Jaume, dove troviamo due ragazzetti catalani dei quartieri alti che sventolano due enormi bandiere indipendentiste. Più tardi torniamo nei quartieri bassi, in un locale della famigerata calle Robadors, nel cuore del Raval. Sulla porta, alcuni uomini parlano dell’indipendenza. Sono catalani: uno è vicino a Podemos, un altro è della CUP, un altro è un vecchio militante della sinistra antifranchista; parlando con lui ripercorriamo tutte le demolizioni del Raval negli anni Novanta e Duemila, che ha documentato con la sua telecamera. È entusiasta del processo, porta una spilletta per la libertà dei prigionieri politici. «Concetti come “prigionieri politici” prima erano di nicchia, adesso ne parlano milioni di persone. È già una grande vittoria», dice. «Sì, ma il PDeCat è il colpevole dei tagli, dei disastri urbanistici…», interviene un altro, e giù a parlare dell’indipendenza.
Il giorno dopo andiamo a conoscere un gruppo di italiani e italiane che vivono a Barcellona da molti anni. S’incontrano in un bar del quartiere Gràcia, con una grande bandiera indipendentista sulla parete: sono tifosi della squadra del quartiere, che sta in Serie C, e si chiama, paradossalmente, Europa. Come me, sono sconvolti da come la stampa italiana abbia riportato le informazioni sulle mobilitazioni; alcuni di loro hanno un blog e una radio web che trasmette da Barcellona in italiano, da anni. All’inizio del processo hanno messo su un nuovo collettivo: LAICA, Libera Associazione Italo-Catalana Antifascista. «La maggior parte degli italiani qui vede il catalano come un fastidio, come un problema. Per noi è sempre stato ovvio che se vivevi qui dovevi imparare la lingua del posto! Non siamo mai stati indipendentisti, ma qui è una questione di memoria storica», mi dice una ragazza. Mi racconta che di recente hanno organizzato un’azione in piazza San Felip Neri, nel Barrio Gótico, dove ancora si vedono i buchi dei proiettili nei muri: le mitragliatrici degli aerei che sparavano sui civili nel 1937. Aerei italiani, mandati da Mussolini in appoggio a Franco. «Come italiani, e come antifascisti, abbiamo il dovere di appoggiare questo processo. Le strutture dello stato spagnolo sono ancora quelle franchiste, e i catalani stanno cercando di liberarsene. Magari li imitassero, nel resto della Spagna o nel resto d’Europa!». Di recente, mi raccontano, uno degli aviatori che bombardò Barcellona è stato commemorato nel suo paese: uno di loro è andato lì a protestare, in Italia.
Infine, quando è il momento di ripartire, mi accompagna in macchina una famiglia di Bon Pastor, il quartiere di migranti spagnoli su cui faccio ricerca dal 2004. Ci tenevo a sapere la loro opinione: i migranti della periferia, operai o disoccupati, sono spesso presentati come il nocciolo duro dell’anti-catalanismo, le basi di sinistra dell’opposizione all’indipendenza. Ma la realtà è più complessa. Il marito, José María, di Granada, ex operaio alla Nissan, è così disgustato dalla borghesia catalana e dalla classe dirigente del PDeCat, che sta diventando unionista; ma mi dice anche quanto gli piacerebbe mandare via il re. La moglie, Mari Carmen, casalinga, è di Barcellona, il padre catalano di Valencia, ma lei ha sempre parlato spagnolo. Dice che con il marito litigano spesso, perché lei vuole l’indipendenza: «Spiegaglielo tu!», mi dice. La figlia, di poco più di diciotto anni, sintetizza il diverbio: «Se mi fanno scegliere tra Spagna e Catalogna è come scegliere tra mio padre e mia madre. Non capisco perché dovrei scegliere». È guatemalteca, adottata, cresciuta a Bon Pastor, frequenta soprattutto latinos e figli di immigrati. Dice che tra i suoi amici alcuni sono indipendentisti, altri spagnolisti, ma molti non ci capiscono niente, e decidono a casaccio, a simpatie. Nel quartiere, dice, ci sono tanti indipendentisti; ora ci sono meno bandiere, perché la gente ha paura, ma prima ce n’erano tante. «Ci sono stati problemi, risse, liti?». «No, macché, niente».
Appena rimango da solo, penso a tutti questi incontri, cercando di ricordare le parole di tutti e tutte. Come spiegarlo? Quanti sono gli indipendentisti? Quanti sono contrari? Quanti sono d’accordo con la posizione di Podemos o di Ada Colau? È impossibile dirlo. Qualunque statistica è sbagliata. Qui non ci sono appartenenze fisse: c’è un paese intero che parla, un enorme dibattito collettivo, esploso con il referendum e con la repressione del primo ottobre. Le posizioni sono diversissime, spesso inconciliabili, la gente cambia opinione anche dalla sera alla mattina. Tutti cercano di contribuire in qualche modo al processo, cercando di spingerlo nella direzione che credono corretta, di accelerarlo, di frenarlo. La politica è ovunque, nelle strade, nei quartieri, nei centri civici. Perché tutto questo non c’è negli articoli dei giornali? Dell’indipendenza ce ne parlano sempre come se fosse cosa di Puigdemont, Rajoy, Soraya, la CUP, il PSOE e Podemos. I protagonisti invece, ed è evidente a tutti, sono le centinaia di migliaia di persone che, giorno dopo giorno, nei bar, nelle strade, davanti ai loro computer o davanti alla polizia, cercano di trasformare la storia del loro paese, di ridiscutere la loro organizzazione sociale, di rompere con uno stato corrotto a cui non riconoscono più nessuna autorità. Con un enorme sforzo, stanno riuscendo a farlo senza versare una sola goccia di sangue.
In Italia, dell’indipendenza della Catalogna si è parlato con sarcasmo, quando non con disprezzo: Puigdemont è fuggito, i catalani sono dei borghesi che vogliono solo evitare di pagare le tasse. Della lotta per l’indipendenza dei baschi non si parlava negli stessi termini. Perché? Ho un’ipotesi: perché siamo attratti dalla violenza. I baschi avevano preso le armi, i catalani si rifiutano anche solo di rispondere alle aggressioni unioniste. Parlano, parlano senza fine, da decenni, di come vorrebbero che fosse la loro repubblica indipendente; credono di poterla ottenere senza spargimenti di sangue: questo ci sembra ridicolo. A loro no, loro ne sono orgogliosi. Perché questo continuo parlare, questo continuo provare, sta mettendo pressione sui politici, li sta obbligando a fare scelte che non pensavano di dover fare. Molti di quelli che da noi li deridono, se fossero nati lì, adesso starebbero discutendo di come cambiare le cose, magari con uno spirito critico, ma impegnati anche loro nel processo. Siamo più interessati alla guerra che al mantenimento della pace; siamo abituati all’esplosione irrazionale della violenza, alla pulizia etnica, all’alzarsi di nuove frontiere; non siamo in grado di ascoltare chi ci parla di mediare i conflitti, di contenere le emozioni o trasformarle in strumenti di coesione, di mantenere i rapporti sociali mentre si cerca di costruire una trasformazione politica. E così, sulla Catalogna proiettiamo le nostre paure: la Lega, i Balcani, la destra populista, e un lunghissimo eccetera.
Adesso da una settimana non se ne parla più, e tutto sembra essere stato solo un fuoco di paglia. Mentre i Comitati di Difesa della Repubblica lavoravano sulle loro emozioni, mentre nei bar e nei locali di Barcellona si continuava a parlare dell’articolo 155, della DUI, dell’ultimo giudice morto in circostanze misteriose, degli arresti nell’interno della Catalogna, il mondo è andato avanti, i giornali hanno cambiato tema. Due settimane fa, sabato 11 novembre, c’erano un milione di persone in piazza a Barcellona, tre chilometri di manifestazione, per chiedere la liberazione dei consiglieri e degli attivisti arrestati. Ma subito dopo Repubblica ha titolato “Rajoy: ‘Così ho salvato la Spagna’”. Una settimana è un tempo infinito per la scala globale, abbastanza per fare apparire i colpevoli come salvatori. Nei prossimi giorni però l’indipendenza riprenderà il suo corso: per il ponte dell’8 dicembre si prevede una grande manifestazione a Bruxelles, a cui parteciperanno decine di migliaia di persone da tutta la Catalogna. Non a Parigi o a Mosca: a Bruxelles, perché è sempre all’UE che si richiede di mediare la rottura con lo stato spagnolo. Poi il 21 dicembre ci saranno le elezioni. Rajoy le ha indette pensando che sarebbero state boicottate dalla nuova repubblica indipendente, ma con l’ironia che ha caratterizzato tutto questo movimento, i catalani e le catalane le stanno trasformando nel referendum sull’indipendenza che è stato loro negato. Non con la forza, ma con l’intelligenza si vincerà questa battaglia. Un’arma ben più potente. (stefano portelli)
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