da: Horatio Post
C’è un punto sul quale SVIMEZ ritorna ormai con insistenza in ogni rapporto annuale, e non riguarda i soldi ma gli uomini: a separare il Mezzogiorno dal resto del paese c’è un nuovo dualismo, quello demografico. Nell’ultimo quindicennio il saldo migratorio negativo supera le settecentomila unità, per i tre quarti sono giovani tra i quindici e i trentaquattro anni, un terzo di questi è laureato. SVIMEZ chiama tutto questo “depauperamento del capitale umano”, la piramide demografica perde in basso il suo basamento di gioventù, il risultato è che anche i conti futuri sono a rischio, assieme a quel po’ di welfare che è rimasto.
Il decreto De Vincenti (Disposizioni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno), che diventerà operativo con l’inizio del nuovo anno, è una risposta allo scenario drammatico che il sud d’Italia ha davanti. In particolare, due provvedimenti – le misure per l’imprenditoria giovanile (Resto al sud), e quelle per l’affidamento ai giovani delle terre inutilizzate (la Banca delle terre incolte) – sono stati presentati dal ministro nel corso di un recente convegno a Napoli, e oggetto di riflessione e dibattito.
Sulla banca delle terre è però il caso di ritornare. Con il suo decreto, il ministro De Vincenti rivede in qualche modo l’approccio della legge 154 del luglio 2016, che non ha dato finora grandi risultati, per evidenti errori di impostazione. Essa prevede infatti la vendita ai giovani, attraverso l’ISMEA, di circa ottomila ettari di terre incolte, di cui solo centocinquanta circa in Campania, a prezzi sostanzialmente di mercato, con mutui agevolati.
Pensare di avviare i ragazzi all’attività agricola, indebitandoli a lungo termine, non è una buona idea: nelle agricolture più avanzate della nostra, quella francese o tedesca per esempio, la proprietà della terra è un’eccezione, i tre quarti delle terre coltivate sono in fitto, mentre da noi è l’esatto contrario, ed è per questo che le nostre aziende sono più piccole e meno competitive, e il mercato fondiario è tendenzialmente rigido.
De Vincenti ha cambiato il meccanismo, puntando sul fitto delle terre di proprietà pubblica, anziché sulla vendita, con contratti di nove anni, rinnovabili per altri nove. È prevista anche la possibilità di prendere in fitto immobili in abbandono da almeno quindici anni, e terreni privati, non coltivati da più di dieci anni, previo naturalmente l’assenso dei proprietari. Il decreto prevede che siano i comuni a censire le terre pubbliche incolte, pubblicando l’elenco sul proprio sito, e predisponendo bandi per il loro affidamento a giovani tra i diciotto e i quarant’anni, che abbiano presentato un progetto di valorizzazione e reimpiego agricolo dei beni.
Funzionerà tutto questo? Ho provato a chiederlo a un amministratore che questo percorso già l’ha avviato. Antonio Montone dal 2005 è sindaco di Castello del Matese, un piccolo comune di mille e quattrocento abitanti, sul fianco del grande massiccio. Ha censito meticolosamente i settecento ettari di pascoli e coltivi di proprietà pubblica presenti nel suo territorio, che dai cinquecento metri di quota si arrampica fino all’altopiano di Campitello, al confine col Molise, attraverso valli di bellezza spettacolare, dove vola l’aquila reale. I suoli pubblici sono affidati a pastori e agricoltori, con regolari contratti, così da poter beneficiare degli aiuti europei. In particolare trenta ettari, in vetta, il comune li ha affidati a una cooperativa di giovani (tre architetti, due psicologi, un laureato in scienze ambientali), che li gestisce assieme al rifugio e alla pista da sci.
«La cosa importante da capire è che rimettere in produzione le terre incolte è un’opera impegnativa e costosa. Un vero e proprio miglioramento fondiario. Questo significa che non basta dare in fitto le terre ai ragazzi, occorre anche un minimo di capitale finanziario, insieme all’assistenza tecnica. Insomma, si tratta a tutti gli effetti di una start-up». Antonio ha ragione, e infatti il decreto De Vincenti prevede che i giovani affidatari possano presentare richiesta di finanziamento sull’altro dei due strumenti, Resto a Sud, con la possibilità di ricevere quarantamila euro (fino a duecentomila euro nel caso di società), il 35% a fondo perduto, il resto con un prestito a tasso zero.
Un punto debole del provvedimento potrebbe essere la dotazione finanziaria, perché per le attività agricole il decreto mette a disposizione, da qui al 2020, solo cinquanta milioni, rispetto ai milleduecentocinquanta stanziati fino al 2024 per le attività extra-agricole. Si tratta di un budget assai limitato, se si pensa che il decreto riguarda ben otto regioni (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia), e da noi potrebbe bastare, se va bene, a finanziare nel prossimo triennio un centinaio di progetti.
«Un’altra difficoltà per i comuni chiamati a gestire il decreto – mi dice Nicola De Leonardis, leader della Cooperativa San Giorgio, che associa gli allevatori di Marchigiana, sugli altopiani del Fortore – è stabilire quali sono le proprietà pubbliche realmente disponibili, perché molte sono gravate da usi civici, e la loro liberazione richiede uno specifico provvedimento regionale. Insomma, è necessaria una stretta collaborazione tra le istituzioni. Magari guardando all’immenso patrimonio ecclesiastico, anche la Chiesa potrebbe avere un ruolo nella promozione di una nuova imprenditorialità agricola nel Mezzogiorno».
Secondo Pietro Ciardiello, direttore della Cooperativa Sole di Parete, leader italiano nella produzione di fragole, «la cosa determinante è integrare le diverse iniziative. La Banca delle terre incolte è un passo in avanti, se si aggiunge agli altri strumenti esistenti, come gli aiuti europei per il primo insediamento dei giovani agricoltori, già previsti dal Programma di sviluppo rurale; o l’affidamento dei beni sequestrati alla camorra. Serve una politica unitaria, di lungo respiro. È importante che i progetti vengano seguiti nel tempo, capire cosa succede dopo, quante aziende vitali veramente nascono e sono poi in grado di camminare con le loro gambe».
Peppino Pagano è uno che all’agricoltura c’è tornato, faceva l’albergatore, ora la sua San Salvatore 1988 produce in Cilento, con tecniche biologiche, vini pluripremiati, insieme a olio e grano. «La terra da sola non basta, per avviare nuove aziende occorrono i capitali, i mezzi tecnici, le competenze. E soprattutto un tutor, una persona preparata e d’esperienza, che accompagni e consigli i giovani imprenditori nelle fasi iniziali».
«Il decreto De Vincenti è un segnale, una piccola luce che si accende nel buio delle politiche per il Mezzogiorno» è il pensiero di Nicola Ciarleglio, coordinatore dell’Agenzia di sviluppo locale GAL-Titerno, che segue l’attuazione delle politiche comunitarie nelle colline del Sannio. «C’è da augurarsi che la macchina amministrativa sia in grado di gestire con celerità le nuove misure, la lentezza delle decisioni è attualmente il nostro principale handicap. L’altra cosa è l’attenzione per le donne: molte delle nuove aziende agricole, quelle che funzionano meglio, sono gestite da loro». (antonio di gennaro)
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