da: Il Corriere del Mezzogiorno
L’esplosione provocata da un ordigno rudimentale che ha devastato l’ultimo piano di un palazzo di via Don Minzoni, un vicolo al confine tra i Quartieri Spagnoli e la Pignasecca, rappresenta ben più di un gesto folle. Ripropone, in modo drammatico, le reali condizioni di disuguaglianza che segnano Napoli ancora nel 2018. Il proprietario del palazzo ha – legittimamente – chiesto uno sfratto per morosità di un nucleo familiare che, a sua detta, aveva come reddito soltanto una pensione di invalidità e l’attività (a nero?) di badante svolta dalla donna deceduta, madre di due figli di cui una disabile.
Una famiglia tipo di quel proletariato precario ed extra-legale che continua ad abitare nei quartieri centrali della città turistica. Un ceto che abita case insalubri, se non i veri e propri bassi che ospitano ancora decine di bambini, uomini e donne in condizioni inabitabili, a differenza di quelli offerti ai turisti come esperienze abitative neopittoresche.
Tuttavia, al di là, di una generica denunzia di una realtà che almeno da quarant’anni non sembra esser granché mutata, l’evento suggerisce la disastrosa assenza di conoscenza della città e della sua popolazione. Si conoscono i parcheggiatori abusivi, i piccoli criminali (le baby gang), i ladri di alberi di natale, ma si ignorano le loro condizioni di vita, di reddito, il loro contesto abitativo e la sostanziale condizione di esclusione in cui sono immersi nel loro quotidiano. Situazione, quest’ultima, che non giustifica nulla, ma spiega – credo in modo chiaro – il continuo riproporsi di atteggiamenti devianti che influiscono sull’insieme della vita della comunità cittadina.
Chi studia e conosce la città? Esiste una committenza pubblica di ricerche serie e circostanziate sullo stato delle abitazioni dei quartieri popolari del centro antico soggetti all’impatto della mutazione turistica? Si conosce la densità abitativa nelle periferie? Si conosce la qualità dell’alimentazione del sottoproletariato? Esistono scienziati sociali che affrontano un terreno di ricerca direttamente, capaci di documentare le condizioni degli strati marginali della popolazione? E lo stato dell’infanzia? Si conosce la condizione disastrosa di scuole ben più preoccupante di un paio di bagni di mare in compagnia del corpo docente di uno dei licei più prestigiosi della città? Si conoscono le rendite fondiarie dei proprietari di interi palazzi, i livelli di affitto e le condizioni del reddito degli inquilini?
Non si conoscono nel dettaglio e, purtroppo, sembrano argomenti che non interessano a nessuno, ma che anzi vengono derubicati facilmente ad una compiacenza con la plebe (sic) locale. Eppure rispondere a simili domande, realizzare ricerche profonde sulla condizione del sottoproletariato del nuovo millennio aiuterebbe non poco l’elaborazione di politiche e interventi efficaci, mirati all’eliminazione di quelle situazioni di base, da dove trae linfa la criminalità organizzata.
Le rappresentazioni a tinte fosche delle bande di camorra è una semplificazione che, forse, è utile a sceneggiatori di serie o scrittori di genere. La città dovrebbe, al contrario, esigere di conoscere le condizioni igieniche, sanitarie, culturali e sociali in cui si muove una fetta importante della propria popolazione. E continua a farlo da decenni. Della Napoli del colera del 1973, o della Napoli dei baraccati di via Marina degli anni Sessanta o delle “isole” popolari raccontate da Luongo e Olive negli anni Cinquanta si sa, incredibilmente, di più della Napoli a noi contemporanea. Erano anni in cui inchieste militanti ma supportate tanto dall’accademia che dalle istituzioni pubbliche rendevano evidenti le carenze ma anche chiare delle linee di intervento. Studiando le inchieste e le ricerche realizzate in quegli anni risaltano imbarazzanti continuità che spiegano – senza dubbio – la persistenza delle disfunzioni e di criticità. Università, istituzioni ma anche partiti e perfino una parte del terzo settore sembra oggi del tutto disinteressata alla comprensione della città reale. Si preferisce immaginare una città che non esiste.
Oggi, oltre a continue indignazioni basate su osservazioni più che superficiali, la città resta una sconosciuta. Sembra che si sia tornati ad accettare l’inevitabilità del sottosviluppo, dell’esclusione, del fatalismo che continua a rappresentare Napoli come il solito paradiso abitato da diavoli. (-ma)
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