L’Indice, ottobre 2016
da: L’Indice dei libri del mese, ottobre 2016
In una “piccola città” della costa campana si costruiscono navi sin dall’epoca dei Borboni. L’onda del Novecento ha investito il cantiere navale e ha portato con sé l’organizzazione operaia, le lotte per un salario dignitoso, le condizioni di lavoro insalubri. Poi, con il tramonto del secolo, l’industria della cittadina ha cominciato a disfarsi: gli ordini degli armatori sono diminuiti, le strategie gestionali hanno imposto la riduzione del personale, la competitività dei cantieri asiatici ha acuito la crisi della produzione. Il fuoco a mare è un reportage narrativo sulla storia del cantiere e sulla vita degli uomini che vi hanno lavorato.
Il libro oscilla fra i ricordi del passato e l’interpretazione del nostro presente. La scrittura trattiene le memorie che si diffondono fra i tavoli del circolo ricreativo operaio, risuonano nel campo di bocce sulla collina. Sono storie di lotte, fratellanze, lutti. Ma ogni racconto sorge accanto ai resti odierni d’un mondo trascorso. Gli uomini si aggirano in spazi abbandonati, fra lo smarrimento e la rabbia: “A vedere il cantiere così ti viene l’angoscia. Ti viene collera”. Il presente si manifesta come tempo del disorientamento: “Compagni! – da un angolo buio c’era sempre chi provava a impostare così la questione – Compagni! Bisogna resistere un minuto in più del padrone!”. “Sì, ma dove cazzo sta questo padrone?”. Il tempo vuoto dell’attesa accompagna la sospensione della produzione: “Un operaio di una ditta esterna in cassa integrazione si lasciò scappare che la mattina si svegliava e non sapeva cosa fare, non sapeva neanche perché si svegliava la mattina. (…) Non gli restava che aspettare”. La tecnica ha lentamente soppiantato l’uomo, le mansioni vengono parcellizzate e “il lavoro cambia volto”. Così la gestione del personale si attiene al regime della flessibilità.
Restano i capannoni “semideserti” e i reparti “silenziosi”. Come osservare le macerie? Come accogliere le voci presenti che rievocano un altro tempo? Sono i dilemmi che abitano Il fuoco a mare. Il narratore non ha partecipato alla costruzione delle navi, è più giovane dei suoi interlocutori, eppure dalla sua scrittura emerge un trasporto affettivo, come se fosse legato ai cantieri da un’intima ragione biografica. L’attrito fra un’inevitabile distanza e il desiderio di vicinanza attraversa l’opera e media le relazioni fra chi scrive e i personaggi che raccontano. La voce del narratore si sovrappone a quelle degli intervistati, le frammenta, le monta insieme, le cita. Egli desidera organizzare le testimonianze in una forma testuale efficace e incisiva, ma spesso appare disordinato, a volte si smarrisce. In alcune pagine gli accadimenti ricordati s’affastellano in aggregati che sfuggono al controllo, in altre il narratore richiama le parole all’ordine, tenta di dominare le voci degli altri e le racchiude nel discorso indiretto. Da questa contraddizione fra la debolezza e l’onnipresenza della voce narrante discende la difficoltà a impostare un punto di vista.
Questa sensazione, tuttavia, illumina i caratteri fondamentali del libro. Il narratore lotta per trovare il giusto sguardo, e i suoi affanni sono sinceri: sintomi di un intimo conflitto con le parole. Come stabilire l’empatia con un mondo in via di dismissione, come salvare la memoria altrui senza reificarla? Il fuoco a mare è un percorso di formazione d’un giovane che racconta un’alterità con la speranza di avvicinarla a sé. Alla fine, e solo alla fine, compare il suo nome proferito con affetto dagli operai: “Andrè”. L’evocazione del nome è la sanzione di un riconoscimento.
Anche la “piccola città” non viene nominata. Solo in conclusione un vecchio operaio ne pronuncia il nome: “Tu li hai visti mai i fuochi dell’Immacolata? – disse – è una tradizione nostra, c’è di mezzo un’antica leggenda marinara. Se la notte dell’Immacolata vai a vedere la città da sopra alla Caperrina, pare che tutta va a fuoco. Il legname accatastato lo nascondono per mesi, altrimenti i carabinieri lo sequestrano, fanno i posti di blocco fuori ai rioni. E quanto legname usciva di nascosto da dentro il Cantiere! Poi la notte del 7 dicembre ogni rione appiccia queste cataste di legna. Si alzano le fiamme ovunque, vampate altissime. Un altro po’ e sembra che il mare sta andando a fuoco. Te lo giuro su mio nipote, Andrè. Castellamare fa una vampa. Pare di vedere il fuoco a mare!”. Finalmente si può nominare Castellammare ed è il nome a fare una vampa. Perché il nome è come il fuoco che scalda gli oggetti viventi. Essi muoiono quando non hanno più un nome, ovvero quando la fiamma della vita non li consuma più. Le macerie industriali sono ceneri spente, fredda materia innominata come i supermercati e le discariche intorno a noi. Il fuoco a mare insegna a chiamare per nome i resti che incontriamo, così da accenderli in falò dalle intense vampate. Ma i fuochi prima o poi si estinguono. Allora bisogna accatastare altra legna in un posto segreto, e prepararsi per l’anno a venire. (francesco migliaccio)