Napoli Monitor propone ai suoi lettori, per i mesi di luglio e agosto, alcuni degli articoli pubblicati su Lo stato delle città nel corso di questi tre anni di attività della rivista.
Ostia, mafia capitale e il rito del capro espiatorio, di Stefano Portelli, è stato pubblicato all’interno del numero 0, nel marzo 2018.
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Racconta Franca Vannini dell’Idroscalo che il giornalista Daniele Piervincenzi, qualche ora prima di arrivare sulla porta della palestra dove prenderà la famosa capocciata da Roberto Spada, era stato a casa sua a intervistarla. Era il 9 novembre 2017, l’intervista si vede anche nel reportage di Nemo su Ostia andato in onda su Rai 2, di cui però tutti hanno visto solo la parte della capocciata. Piervincenzi mostra l’Idroscalo: «Una baraccopoli che molti vorrebbero abbattere», dice la voce off, con una musica sinistra in sottofondo. Poi si vede la casa di Franca, come sempre piena di gente, soprattutto bambini, che quel giorno facevano i compiti insieme. «Questa baracca che vedete…», dice la voce, mentre scorrono le tipiche immagini di desolazione che da sempre accompagnano ogni rappresentazione del quartiere. Franca dopo gli scriverà su WhatsApp: “Baraccopoli sarà casa tua”. Il giornalista gli risponderà candidamente: “Franca, pensavo saresti contenta, il termine baraccopoli è pasoliniano”.
Dice Franca che durante tutta l’intervista il giornalista ha cercato di farle dire che l’Idroscalo è fascista e razzista. Ma è cascato male. Franca ha raccontato davanti alla telecamera che lei e altre donne del quartiere si occupano della scolarizzazione dei bambini rom, che all’Idroscalo convivono con moltissimi migranti e che con Casa Pound non hanno niente a che spartire. Lui cercava continuamente di coglierla in fallo, ma lei conosce il gioco, negli anni Settanta era nelle occupazioni di Tiburtino III, ha una coscienza politica ben radicata e sa bene che tutti i giornalisti che arrivano all’Idroscalo, per quanto sorridenti, cercano solo di usarlo per i propri fini. Vogliono far giocare al quartiere la parte della baraccopoli disperata e immorale, per ottenere audience, visualizzazioni, suscitare indignazione, far parlare di sé. La figlia di Franca, infatti, ogni volta che vede qualcuno fotografare nel grande piazzale di fronte casa, chiede di farle vedere le foto. Se hanno fotografato le pozzanghere, le buche, la spazzatura che l’Ama non raccoglie, i bambini che giocano sull’asfalto, lo dice chiaramente: o le cancelli, o te spacco la macchinetta. Franca invece preferisce parlarci con calma, anche se poi, sistematicamente, se ne pente.
Dall’inizio del 2015, tutta Ostia è diventata un palcoscenico per una grande manifestazione del potere. Una delle fazioni che si contendono il potere a Roma ha iniziato a utilizzarla per nascondere le proprie contraddizioni, gli avvilenti casi di corruzione emersi con lo scandalo Mafia Capitale a fine 2014. Per sviare l’attenzione dalle sue colpe e da quelle dei suoi alleati, ha costruito un immenso mito, proiettando tutto il male possibile sulla parte più lontana e sconosciuta della città, attribuendole colpe infami, per permettere ai propri membri di presentarsi come i restauratori della legge. Le altre fazioni, una alla volta, si sono unite alle grida di scandalo per non essere considerate conniventi. I giornali hanno bombardato l’opinione pubblica con versioni semplificate della vita sociale di Ostia, facendo a gara a trovare i dettagli moralmente più ripugnanti. L’indignazione generalizzata verso la corruzione dei partiti, emersa con Mafia Capitale, è stata artificialmente convogliata nell’inquietudine verso le periferie della città.
Tecnicamente, questo è un rituale di capro espiatorio. Un membro della comunità viene investito di tutto il male; tutti si accaniscono a umiliarlo, a gridare il proprio rigetto per mostrarsi diversi dal male; poi lo espellono, o lo eliminano, fisicamente o simbolicamente. La comunità ne esce purificata, e tutto può continuare come prima. A Ostia, il rituale si è celebrato con i reportage di cronaca nera, le dichiarazioni dei politici, le operazioni di polizia, e alla fine con il commissariamento del municipio, ad agosto 2016. Ma come si sente un capro espiatorio? Come reagisce alla sua stigmatizzazione? Negli anni in cui Ostia veniva dichiarata ufficialmente “mafiosa”, io facevo ricerca sulla zona di Ostia Ponente, la parte più povera del litorale, proprio dove Piervincenzi prese la capocciata da Roberto Spada. Non lavoravo certo su mafia o criminalità, però gli abitanti che frequentavo, sia lì che in altre parti di Ostia, mi dicevano di sentirsi sospettati di essere “mafiosi” solo per il fatto di vivere lì. Leggevano i giornali con costernazione; molti si impelagavano in sequenze di insulti senza fine su Facebook; la parola mafia ricorreva di continuo, in tutte le conversazioni, quasi sempre con ironia, ma un’ironia amara.
Il 2 dicembre 2014 esplode il caso Mafia Capitale, che coinvolge impresari, funzionari e politici di destra e di sinistra, ma che desta particolare scandalo per il coinvolgimento di alcuni esponenti della giunta comunale Pd, l’assessore alla casa Ozzimo e l’ex capo di gabinetto Odevaine, per esempio, che prendevano migliaia di euro al mese in tangenti per “orientare i flussi” di migranti e senza tetto verso le strutture della cooperativa di Salvatore Buzzi. I romani sentono che i loro sospetti sul perché la loro città stia andando in rovina hanno finalmente dei nomi e delle spiegazioni. Forme di corruzione fino ad allora considerate poco più che folklore, si rivelano un vero e proprio sistema, con vertici e basi. La parola “mafia” è su tutti i giornali, tutti i giorni. Il presidente del consiglio Renzi scioglie la federazione romana del suo partito, il Pd, affidandone il commissariamento a Matteo Orfini. Il sindaco Marino nomina un “assessore alla legalità” per dare un segno di cambiamento nella sua giunta tormentata dagli arresti. Il peso della parola “mafia” può essere esorcizzato solo da un giudice antimafia: il nuovo assessore è il palermitano Alfonso Sabella, noto per alcuni arresti eccellenti; la sua autobiografia si intitola Cacciatore di mafiosi.
Tra i molti politici che cadono in quei mesi nell’ambito dell’inchiesta c’è anche il presidente del municipio di Ostia, Andrea Tassone, anche lui Pd, che si dimette a marzo 2015, denunciando “pressioni della mafia”. Due mesi dopo viene arrestato per le tangenti che avrebbe preso in cambio di appalti. A quel punto inizia lo spettacolo: il sindaco Marino nomina un improbabile “assessore alla legalità”, il giudice palermitano Alfonso Sabella, e gli delega il municipio di Ostia, con il compito di ripristinarvi “la legalità”. Anche il Pd nazionale nomina un commissario per Ostia, il senatore Stefano Esposito, noto alle cronache per le posizioni oltranziste sulla Tav in Valsusa, e condannato per diffamazione contro militanti No-Tav. Nel frattempo le opposizioni, tra cui il Movimento Cinque Stelle (non toccato da Mafia Capitale), spingono per il commissariamento del comune di Roma, un’azione che avrebbe un impatto enorme sul Pd, forse sull’intera cittadinanza. Per questo molti si sentono sollevati quando il 28 agosto 2016 il ministro degli interni Alfano annuncia che Roma non sarà commissariata. In cambio, però, il ministero commissarierà uno dei quindici municipi della città: quello di Ostia. Trovato l’organo malato, l’intero organismo si sente già meglio.
Pochi mesi dopo il commissariamento, il giornalista Piero Orsatti scrive (in un libro su Mafia Capitale): “Come si sentiranno ora le centinaia di migliaia di cittadini di Roma residenti nel X municipio? Sono loro i mafiosi? E perché non sciogliere il municipio della Romanina, Tor Bella Monaca, Primavalle? E perché non la zona residenziale della Collina Fleming e di Corso Francia, ‘mandamento’ alla romana di Massimo Carminati? E perché non l’Eur, che di mafia e impicci ne ha collezionati una marea? E il centro, il municipio dove camorra, ’ndrangheta e Cosa nostra sono andate a fare shopping di locali, ristoranti, case e attività commerciali? Ostia è stata posta oltre la periferia e solo su di lei è stata emessa una condanna che appartiene a tutta la città”.
In effetti, nelle carte di Mafia Capitale, mille pagine in cui si nomina quasi ogni quartiere di Roma, Ostia appare solo due volte: per l’acquisto di una parcella di terreno e per una cena al ristorante. Se Mafia Capitale aveva dei “luoghi” dove si incontravano i suoi membri, dove Carminati spiegava la sua teoria sul “mondo di mezzo”, erano i quartieri dell’alta borghesia di Roma Nord – Corso Francia, Fleming, Parioli, Prati – e il centro storico: gli unici che nelle elezioni comunali del 2016 voteranno per il partito di governo.
Per capire come Ostia abbia potuto rivestire questo ruolo di capro espiatorio, bisogna comprendere il rapporto che questa parte di Roma ha con il resto della città. Ostia, in sostanza, è una colonia: dove le élite della madrepatria da una parte mostrano il loro potere, e dall’altra spediscono tutto ciò che non vogliono avere intorno. Ostia riassume tutte le contraddizioni delle periferie romane, ma ha anche delle caratteristiche che la differenziano da tutte le altre. Intanto, è una vera e propria città, più popolata di quasi tutti i comuni del Lazio, e separata da venti chilometri di campagna dal resto di Roma; amministrativamente però dipende interamente da Roma; di fatto, è un quartiere periferico della capitale. Allo stesso tempo, la presenza del mare la rende diversa da ogni altro quartiere: anche chi vive nei suoi luoghi più miseri, ha accesso a una riserva di bellezza e natura che gli altri romani si conquistano solo con ore di fila in auto, o di viaggi su mezzi pubblici sgangherati. A Ostia si sovrappongono due ruoli che una periferia può svolgere verso la città: da un lato gli edifici residenziali, eleganti, resi ancora più prestigiosi dalla presenza del mare, gli ambiziosi progetti di valorizzazione, come il porto turistico di Rutelli o il waterfront di Alemanno (per fortuna mai realizzato); dall’altro le zone più caotiche e incontrollabili della capitale, come le case popolari di Nuova Ostia o il quartiere auto-costruito dell’Idroscalo. Insomma, chi approda a Ostia in cerca della bellezza, deve imparare a convivere con la miseria; chi vi finisce perché non ha alternative, comunque gode di un luogo privilegiato.
Proprio per questa sua complessità, a Ostia non mancano le situazioni in cui “ripristinare la legalità”. Ma l’illegalità a Ostia non ha niente a che vedere con la mafia. Anzi, per lungo tempo è stato proprio grazie all’illegalità che gli abitanti sono riusciti a tamponare situazioni di disagio sociale estremo, spesso causate proprio dalle reti clientelari e di favori ai privati indagate più tardi da Mafia Capitale. Un esempio è proprio Nuova Ostia, il quartiere della capocciata. Fu costruito a fine anni Sessanta dal palazzinaro Renato Armellini, uno dei maggiori speculatori all’epoca del “sacco di Roma”, che voleva fare appartamenti accanto al mare per la borghesia. Presto Armellini comprese che avrebbe fatto molti più soldi cedendo le palazzine al comune di Roma, poiché proprio in quel momento il sindaco democristiano Darida subiva forti pressioni dal Pci e dal movimento per la casa per trovare una risposta al cosiddetto “problema dei baraccati”. Da vero precursore del compromesso storico, Darida riuscì ad accontentare sia la sinistra che il costruttore: nel ’72 trasferì diecimila persone nelle palazzine Armellini, tutti quelli che abitavano nei quartieri auto-costruiti tra Prenestina e Casilina (Acquedotto Felice, Mandrione, Quarticciolo, Borghetto Prenestino), mentre il Pci celebrava l’“acquisizione” dei nuovi appartamenti, invece della “requisizione” che aveva invocato. Armellini approfittò dell’emergenza per ottenere che il Comune gli comprasse alcune palazzine; con quei soldi completò i lavori alla bell’e meglio e affittò al Comune tutte le altre palazzine. Tuttora il Comune continua a pagare ogni mese l’affitto alla sua discendente, Angiola Armellini.
Quando arrivarono, i baraccati erano felici perché c’era il mare. Presto si accorsero però che c’era solo quello: mancavano scuole, farmacie, mercati, anche le strade. Chiuso l’accordo con Armellini, il Comune non si preoccupò di dotare il quartiere dei servizi primari. I nuovi abitanti erano lontanissimi da Roma, completamente scollegati, e molti persero il lavoro. Nel quartiere iniziò a diffondersi l’eroina, che nelle cosiddette baracche non c’era. Molte scene di Amore tossico, il film di culto di Claudio Caligari, girato pochi anni dopo il trasferimento, sono ambientate nella piazza centrale di Nuova Ostia, piazza Gasparri. Molti andarono via, alcuni rinunciarono alle case, altri le passarono ad altre famiglie, altri se ne approfittarono per far venire i familiari; come in tutti i quartieri di edilizia pubblica di Roma, un’infinità di appartamenti furono occupati. Il Pci, a cui aderivano molti dei nuovi abitanti, aprì una sede occupando un garage delle palazzine, e cercò di organizzare la vita e le proteste dei residenti. Molti spazi che il Comune manteneva chiusi vennero occupati; in uno si stabilì addirittura la chiesa del quartiere; altri furono assegnati a disoccupati che li usavano per guadagnare qualcosa. Tutti i garage, per esempio, furono assegnati alla famiglia più bisognosa di ogni palazzina, che custodiva le auto dei vicini in cambio di piccole quote mensili; ormai era impossibile lavorare se non si aveva la macchina, ma tenerla in strada era pericoloso.
Le cose cambiano con gli anni Novanta, quando i militanti della zona iniziano ad avvicinarsi all’amministrazione pubblica. Nascono le prime cooperative sociali per dare lavoro agli ex tossicodipendenti; il traffico di droga si ritira progressivamente dalle strade; Nuova Ostia, invece che una spina nel fianco, diventa una riserva di voti per i partiti che governano la città. Rutelli a fine anni Novanta promuove un mega-progetto che avrebbe dovuto riqualificare quella fascia di litorale: il porto turistico di Roma, un chilometro di spiagge libere da trasformare in un muro di cemento in cambio di ricchezza e lavoro. Come sempre, gli abitanti non ottennero né l’una né l’altra, persero solo le spiagge, mentre le concessioni pubbliche andarono a un imprenditore di Ostia, Mauro Balini, in affari con mafiosi e narcotrafficanti. Negli anni in cui Ostia diventò una delle capitali europee della techno e dei rave illegali, Nuova Ostia rimase tagliata fuori non solo dalla città, ma anche dal mare, dubitando di ottenere un riscatto dalla nuova sinistra municipale. Per molti fu una bella soddisfazione quando gli inquirenti dimostrarono la connivenza tra il presidente del municipio Tassone e il patron del porto turistico Balini, portando all’arresto di entrambi.
Ma quando Sabella inizia a interessarsi di Ostia, la questione del porto e della corruzione del municipio sembrano fuori dalla sua portata: se ne stanno già occupando i giudici. Si concentra allora su un altro problema annoso del litorale, cioè le concessioni irregolari delle licenze balneari. Fa demolire alcuni chioschetti che si erano espansi sulle spiagge più di quanto dichiarato, e apre dei passaggi a mare attraverso gli stabilimenti privati. L’operazione è rivendicata dal Comune come una “restituzione del mare ai romani”, e l’immagine delle cosiddette #ruspedellalegalità che abbattono i chioschi diventa un simbolo della capacità del Comune di combattere l’illegalità.
L’equazione tra illegalità e abusivismo inquieta non poco gli abitanti di Nuova Ostia, che hanno ereditato dai decenni precedenti una situazione di caos assoluto nell’accesso ai servizi pubblici. Infatti, il passaggio successivo è proprio a Nuova Ostia. Con un’operazione di polizia in grande stile, Sabella fa irruzione in una palestra del quartiere, che – come la chiesa, come la sede del Pd (ex Pci), come la comunità di Sant’Egidio – tecnicamente sta occupando abusivamente dei locali comunali. La sua responsabile, Elisabetta Ascani, insegna danza ai bambini e ne ha chiesto per anni l’assegnazione; ma il Comune pretendeva che pagasse i debiti dell’assegnatario precedente. Sfortunatamente, nella scuola di danza insegna anche il marito di Elisabetta: Roberto Spada. Campione di poker e maestro di boxe, incensurato, Roberto ha un cognome ingombrante.
Il “sequestro della palestra della mafia” rimbalza sui giornali per mesi, senza che si dimostri mai che nella palestra si siano svolte attività legate ai reati commessi dai parenti di Roberto Spada. Gli Spada erano una famiglia di sinti abruzzesi quando si trasferirono a Nuova Ostia insieme agli altri baraccati nel ’72; venivano dal Mandrione, uno dei più poveri quartieri auto-costruiti di Roma, case precarie sotto gli archi di un acquedotto rinascimentale, dove svolgevano il mestiere tradizionale dei cavallari. Ma a Ostia, come per quasi tutti i trasferiti, era impossibile esercitare la professione. Alcuni Spada entrarono nella lotta politica, aderendo al Pci; altri si legarono ai malavitosi trasferiti da altri quartieri, presero contatto con la banda della Magliana, insomma entrarono nel sottobosco criminale di Ostia, diventando presto una famiglia rilevante, almeno numericamente. Non ebbero mai ruoli di guida, ma senza dubbio erano minacciosi, almeno fisicamente. Pochi anni prima del commissariamento, una cronista di nera di Repubblica, Federica Angeli, dimostrò che alcuni membri della famiglia avevano ottenuto concessioni sospette sul litorale; fu minacciata di morte, e le fu assegnata una scorta. La sua figura diventò importante tra maggio e giugno 2015, quando pubblicò una serie di articoli su Repubblica denunciando le malefatte degli Spada e del sottoproletariato di Nuova Ostia, denunciando stanze delle torture e “racket dei parcheggi”, in riferimento all’autogestione dei garage delle palazzine Armellini.
Angeli in diverse occasioni aveva lodato l’operato della giunta Tassone e del Pd di Ostia; da Mafia Capitale in poi contribuì a presentare Sabella, Esposito, Orfini, come l’unica speranza per riscattare Ostia dalla mafia. Giocando con il suo cognome, quella stessa primavera 2015 Angeli aprì un blog che chiamò Angeli vs. Demoni; partecipò a un’infinità di dibattiti pubblici sulla mafia di Ostia, che invariabilmente identificava con le parti più povere del litorale, e in particolare con la famiglia Spada; uno di questi incontri si chiamava “La penna contro la Spada”, e la sua raccolta di articoli, con riferimento alla teoria di Carminati, la intitolò Mondo di sotto. Chi non la pensava come lei, chi non le dichiarava solidarietà – fossero gli Spada, i Cinque Stelle o gli oppositori politici dell’Idroscalo – erano mafiosi, collusi, omertosi, criminali. Per molti ostiensi, tuttavia, il suo accanimento contro alcuni elementi in particolare non era che un modo per sviare l’attenzione dal coinvolgimento del suo partito in Mafia Capitale.
Per molti abitanti di Nuova Ostia, che già soffrivano per la presenza di gruppi criminali nel loro quartiere, e che non si facevano scrupoli a condannare il malaffare degli Spada, la palestra “abusiva” di Elisabetta Ascani era una risorsa importante. Alcuni giorni dopo la chiusura, centinaia di bambini e ragazzi che seguivano i corsi di danza – tra cui figli e nipoti di molte persone che conoscevo, ex militanti del Pci o attivisti storici del quartiere – fecero un saggio all’aperto per rivendicare la loro necessità di uno spazio culturale e sportivo. Tra l’altro, per quanto gli Spada fossero continuamente descritti come “un clan”, il quartiere come “un feudo” o “il fortino degli Spada”, chi vi abitava differenziava chiaramente criminali e persone rispettabili, sapendo che i legami familiari rendono difficile dissociarsi dalle malefatte dei propri consanguinei. Angeli invece ragionava per contaminazione, rendendo sospetto di collusione chiunque avesse avuto contatto sia pur remotamente con una famiglia che viveva lì dagli anni Settanta. Sabella dichiarò che avrebbe aperto una “palestra della legalità” in sostituzione di quella “della mafia”, ma non riuscì a mantenere la promessa. Durante le proteste per la chiusura della palestra, Roberto Spada pubblicò un post in cui lodava il Movimento Cinque Stelle. Naturalmente Esposito, Angeli, Sabella e altri esponenti del Pd romano presero la palla al balzo, dichiarando che il loro avversario politico era legato alla mafia. Il Movimento dovette rifiutare pubblicamente l’endorsement.
Dopo il polverone sulla vicenda dei chioschetti e della palestra di Nuova Ostia, dopo l’irruzione della figura di Roberto Spada sulla scena, inizia il commissariamento di Ostia: agosto 2016. L’attenzione pubblica è ormai stabilmente focalizzata su quel quadrante della città. Non è che Ostia non abbia una sua storia criminale, ma essa non è diversa da quella di molti comuni del basso Lazio, Aprilia, Latina, Fondi o Nettuno, zone in cui negli anni Sessanta venivano mandati al confino importanti esponenti di camorra, ‘ndrangheta e Cosa nostra, che poi iniziarono a reclutare piccoli malviventi locali per contendersi appalti e traffico di droga. Nel secondo rapporto di Mafia Capitale, a giugno 2015, a Ostia si dedica un intero paragrafo, che però ripercorre la storia di queste famiglie già note agli inquirenti: i fratelli Triassi, legati a Cosa nostra, sotto processo dal 2013, poi assolti; gli abruzzesi Fasciani, il cui boss era in carcere da gennaio; e la loro manovalanza locale, gli Spada appunto, anch’essi già quasi tutti in carcere. Il rapporto individua poi la relazione tra queste organizzazioni e Mafia Capitale, che è quasi inesistente, se non per un commercialista legato sia a Fasciani che a Buzzi, e per il presidente del municipio Tassone. Ben poco per giustificare un commissariamento, o l’attribuzione di un ruolo privilegiato a Ostia in Mafia Capitale. In breve: le inchieste giudiziarie preesistenti sulla criminalità a Ostia, che vanno avanti da un decennio, oggi monopolizzano il dibattito su Mafia Capitale.
Per gli ostiensi, il commissariamento ha comportato il taglio a servizi indispensabili – mense, finanziamenti per la disabilità, servizi educativi – e l’assenza di referenti per qualunque bisogno, addirittura per l’accensione dei riscaldamenti nelle palazzine Armellini. A livello simbolico, inoltre, ha significato l’esclusione dalla città, in un territorio la cui appartenenza a Roma è già controversa. Gli ostiensi non hanno potuto votare per il loro municipio, nel 2016, ma hanno partecipato comunque alle elezioni per il sindaco: Ostia è il quartiere di Roma dove il Movimento Cinque Stelle ha raccolto più consensi in città, in entrambi i turni – senza dubbio in risposta alle operazioni mediatiche e poliziesche di Sabella ed Esposito, e al commissariamento. Ma dopo l’elezione di Virginia Raggi come sindaca di Roma, il Movimento si è ritrovato con le mani legate: qualunque deviazione dalla linea quotidianamente tracciata dai giornali e dal partito di governo portava al rischio di essere accusati di collusione con la mafia; e le critiche contro il commissariamento di Ostia sono state ridotte al minimo.
All’inizio del 2017, quando il ministero degli interni ha annunciato che avrebbe prolungato il commissariamento di altri sei mesi, anche se nessuno sapeva esattamente quali erano i risultati ottenuti fino a quel momento, né i Cinque Stelle né altri partiti si sono azzardati a esprimersi. Il Pd (affiancato da voci prestigiose come quella di Attilio Bolzoni) intanto tuonava che opporsi al commissariamento significava sostenere la mafia. Alcune centinaia di ostiensi hanno sfilato comunque silenziosamente fino alla sede del municipio, chiedendo la sospensione della misura e la possibilità di eleggere i propri rappresentanti.
Solo un gruppo politico porta le proprie bandiere alla manifestazione contro il commissariamento: Casa Pound. Un gruppetto di ragazzotti della borghesia di Ostia, mai troppo ben visti nel municipio e soprattutto nelle sue periferie, approfittano del risentimento generalizzato per presentarsi come unica forza in grado di opporsi allo stigma su Ostia. Già nei mesi precedenti avevano cercato, senza troppo successo, di penetrare nel quartiere di Nuova Ostia, distribuendo pacchi di alimenti alle famiglie e organizzando manifestazioni di protesta contro lo stato disastroso dei servizi. La presenza di Casa Pound nell’unica manifestazione contro il commissariamento fa convergere l’inquietudine verso il neofascismo serpeggiante nelle periferie romane con la repressione della dissidenza politica a Ostia. Per chiudere il cerchio, arriva un nuovo post di Roberto Spada, che pubblica in Facebook una foto con il leader locale di Casa Pound, Luca Marsella. Dopo essere stato sconfessato dai Cinque Stelle, l’unico membro in libertà della famiglia, in cerca di appoggi, si era rivolto al gruppo neofascista. Impossibile un regalo migliore al mito del capro espiatorio: chiunque si oppone alle politiche del governo a Ostia, o critica la gestione commissariale, oltre a essere mafioso, è anche fascista.
Alle elezioni per il municipio di Ostia del novembre 2017, le prime dopo la fine del commissariamento, tutti i partiti crollano miseramente. Il Pd perde quasi diecimila voti, i Cinque Stelle oltre ventimila. Trentamila persone non vanno a votare. Casa Pound ne ottiene quattromila in più che alle comunali dell’anno prima, arrivando a seimila. Una goccia nel mare, in un municipio con centottantamila votanti. Ma la bassissima affluenza li porta a rappresentare il nove per cento dei votanti: il male si sta materializzando proprio lì dove lo si cercava da due anni. Iniziano i servizi giornalistici che cercano mafiosi e fascisti di Ostia.
In un libro sulla guerra in Afghanistan, il sociologo Anand Gopal spiega come la ricerca disperata dell’“asse del male”, nel paesaggio incomprensibile di decine di gruppi armati in guerra tra loro, portò l’esercito americano ad allearsi con chiunque affermasse di star combattendo i talebani. Alla fine, un gruppo capì che avrebbe ottenuto grande seguito presentandosi proprio come quel male assoluto che cercava il presidente Bush: così nacquero i veri talebani. La società reagisce allo stigma prima opponendosi, poi utilizzandolo, alla fine incarnandolo: come le donne che nei processi dell’Inquisizione finivano per ammettere di essere proprio le streghe che gli inquisitori cercavano. Dopo diversi servizi giornalistici (alcuni si trovano in rete), Roberto Spada finalmente rispose come ci si aspettava da lui: con la violenza. Non era certo la prima volta che dei giornalisti venivano aggrediti nelle periferie: era successo pochi giorni prima a San Basilio, l’estate prima a Torbellamonaca, ma la capocciata sferrata da Roberto Spada a Daniele Piervincenzi fu una catarsi per il resto della città: era tutto vero, era tutto giusto, Ostia è davvero mafiosa e fascista.
Roberto Spada, incensurato, ha avuto il carcere duro: aggressione con l’aggravante del metodo mafioso. È stato rinchiuso nel carcere speciale di Tolmezzo, Udine, in regime di 41 bis. Lo stesso carcere in cui, si noti bene, è rinchiuso Carminati, il “boss” di Mafia Capitale. Nei giorni seguenti una grande manifestazione contro la mafia percorre il centro di Ostia, stavolta vi aderiscono tutti i partiti, Cinque Stelle compresi. Casa Pound, ormai riabilitata dal voto al municipio, prende anch’essa pubblicamente le distanze da “gli Spada”.
Cosa sente un capro espiatorio? Durante le mie conversazioni a Nuova Ostia, molto prima di questo epilogo, mi presentarono Roberto Spada. Gli chiesi di intervistarlo, e mi invitò nel suo bar a Nuova Ostia. Parlammo per un paio d’ore, nel retro del bar. Alla fine dell’intervista, dopo i saluti, alcuni avventori mi fecero notare che una macchina della polizia in borghese mi aveva tenuto d’occhio tutto il tempo. Roberto mi raccontò dell’origine della sua famiglia, del trasferimento dal Mandrione a Nuova Ostia, della vita nel quartiere quando era ragazzo. Quando finimmo a parlare delle vicende di Nuova Ostia, provò a spiegarmi un evento recente, una gambizzazione avvenuta poche traverse più in là, in cui erano coinvolti anche membri della sua famiglia. Mentre parlava, disegnava su un foglio per spiegarmi le relazioni tra le diverse fazioni: questi sono Spada, ma questi che avevano litigato con loro, anche loro erano Spada; e questi che dovevano soldi a questi altri erano amici di questi altri, eccetera eccetera. Il disegno voleva essere un’illustrazione di come, in un quartiere complesso come Nuova Ostia, fosse impossibile tracciare una separazione tra buoni e cattivi, mafiosi e antimafiosi, angeli e demoni.
Subito dopo il suo arresto, a poca distanza da Nuova Ostia, un gruppo di abitanti ha risposto in modo significativo agli eventi: sono le donne dell’Idroscalo, quartiere auto-costruito sulla riva del Tevere, cresciuto anche grazie ai fuoriusciti di Nuova Ostia. Vi abitano famiglie medio borghesi, attratte dal paesaggio singolare della foce, che hanno imparato a vivere con gli esclusi di mezza Roma, famiglie poverissime per le quali la loro casa auto-costruita, considerata abusiva, è l’unica risorsa di cui dispongono. Franca Vannini e alcune sue vicine, oltraggiate dal reportage di Piervincenzi, offese da anni di articoli di Repubblica che le dipingevano come mafiose e fasciste, hanno scritto un grosso striscione con lo spray, contro lo stigma ormai incancellabile calato su Ostia e sulla loro zona. Insieme ai bambini lo hanno appeso nel grosso piazzale antistante la scogliera; anni prima il Comune proprio lì ha demolito oltre trenta case, senza neanche avvisare i residenti, trasferiti a forza a decine di chilometri di distanza, in residence di proprietà dei soliti palazzinari. A nome del quartiere, ma forse di tutta Ostia, chiedono di essere trattati come tutti gli altri romani, e di non essere più costretti a giocare il ruolo dei colonizzati, a recitare la parte del capro espiatorio.
“Noi dell’Idroscalo siamo i cittadini!”, dice lo striscione, poi fotografato e pubblicato come foto di profilo sulla pagina Facebook della Comunità Foce Tevere. “I markettari servi del potere non li vogliamo”. L’ultima frase è la più significativa, carica dell’ironia aggressiva, rabbiosa, ma genialmente spregiudicata che caratterizza i quartieri popolari di Roma: “Per le altre interviste – dice – una testata alla volta, grazie”.
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