A Fuorigrotta, quartiere di Napoli ovest, dove ho abitato per ventisei anni, all’angolo tra via Giulio Cesare e via Calise c’è la più antica vestigia storica a cielo aperto che il quartiere conservi, una stele marmorea inquadrata in una massiccia cornice di porfido, messa lì nel 1789 per volontà del sovrano Ferdinando IV per istituire un posto di blocco per tutti i dannati della terra che sbarcavano il lunario commerciando il lino e la canapa che, dopo aver decantato nelle acque dei laghi dell’area flegrea, carichi dei loro fetidi miasmi venivano portati in città su carri e carretti per essere commerciati. La stele che istituiva il posto di blocco sorge là dove i latori delle merci erano tenuti a fermarsi, a dichiarare il proprio carico e a sottoporsi ai controlli sanitari previsti, per ottenere il nulla osta a entrare in città.
È abbastanza incredibile che questa stele sia rimasta fino a oggi al suo posto, sopravvivendo anche ai programmi di suprematismo rettilineo che nella tarda epoca fascista snaturarono i casali agricoli di Fuorigrotta facendone un piccolo Eur napoletano, con la spianata di via Giulio Cesare e del viale Augusto a fare da cerniere trionfali tra la città e la nascitura Mostra delle terre d’Oltremare, quell’ibrida forma di esibizione permanente sulle colonie africane che nel 1940 ebbe in sorte di nascere morta per la contemporaneità con l’ora delle scelte irrevocabili.
Poco prima che quella stele diventasse bicentenaria, nel 1985, entravo alla scuola media statale Silio Italico, che oggi come allora quella stele include nel suo muro di cinta. Da scolaro della Silio Italico, per tre anni, mi confrontai continuamente con l’esistenza di un nuovo confine daziario, ad appena pochi metri di distanza dalla stele ferdinandea che col suono della moneta aveva regolato il flusso del fetore della canapa. Stavolta, in epoca post-terremoto, in una scuola triste e fatiscente in cui ogni porta, ogni tramezzo, ogni soffitto erano di alluminio anodizzato, la linea di confine tra lo Stato che decide cos’è la puzza e come la si possa disciplinare e chi viene accusato di propagare il fetore se osa uscire dal recinto in cui la sua esistenza è tollerata, fu la breccia tante volte murata e tante volte violata nel muro tufaceo che separava il campetto di calcio della scuola da via Calise. Lo stato democratico, per allegare alla scuola un’area per le attività sportive all’aperto, aveva requisito il terreno e realizzato un campetto di calcio in asfalto, presto butterato dall’afa e dalla totale mancanza di manutenzione.
Forse anche memori delle umiliazioni violente inflitte agli straccioni che in quel posto avevano provato a passare in città senza pagare dazio per il proprio fetido carico di canapa, i ragazzi di via Calise per una, cinque e dieci volte con un buco nel muro rimuovevano il confine che lo Stato tornava sempre a ridisegnare, richiudendo la breccia con qualche mattone e un po’ di calce. I ragazzi di via Calise non volevano sfidare lo Stato, che si era annunciato sotto forma di prefabbricato in alluminio anodizzato, che oggi si chiamerebbe pure presidio di legalità, ma solo prendersi lo spazio per dare due calci a un pallone.
A un certo punto fu chiaro che continuare a murare era insensato: si decise di contenere la breccia con un cancelletto di ferro. Pittato di verde. Le chiavi del lucchetto, che teneva la catena, stavano in mano a Hitler, come bonariamente tutta la scuola chiamava il bidello che gestiva con metodi molto spicci i flussi delle scolaresche in entrata e in uscita. Era chiaro che esistevano altre chiavi, ma chi le aveva doveva avere degli accordi extra-legali con Hitler e con chi lo aveva mandato avanti. Hitler serrava il cancello ogni mattina e lo riapriva quando finiva il turno pomeridiano, cioè quando d’inverno era buio pesto (a oltre cinque anni dal terremoto, c’erano ancora i doppi turni scolastici, altra conquista creativa dello stato democratico per trasformare novanta secondi di terremoto in un’emergenza permanente giocata sulla pelle di ragazze, ragazzi, genitori e insegnanti).
Ci fu un periodo di buona convivenza, qualcuno che aveva il duplicato della chiave apriva il cancello a piacimento in orario scolastico, Hitler confermava la sua autorevolezza rendendosi irreperibile, il campo era grande, le pretese dell’ora di educazione fisica potevano essere soddisfatte a una porta e così si giocava a porte americane, mezzo campo alla Silio Italico, mezzo campo a via Calise. Eravamo separati sullo stesso campo, ma giocavamo sullo stesso campo. Funzionava. Non c’erano provocazioni stupide, al di là di qualche strattonata inattesa che pure fa parte dei sani anni della formazione di chi non vive nell’ovatta.
La convivenza con gli irregolari di via Calise non pesava a nessun alunno della Silio Italico, anzi: l’ora di educazione fisica era diventata l’occasione per vedere qualcosa del mondo che restava fuori dalle aule della scuola, la vita che lo Stato scacciava sdegnosamente dai suoi civili “limitoni” di alluminio anodizzato. Finché il professore di educazione fisica non decise che bisognava darci un taglio.
Persona perbene, comunista ordinato e ben pettinato, come tanti che in quegli anni presero a volo un’assicurazione per la vita a condizioni che pochi anni più tardi sarebbero state definitivamente dichiarate da bancarotta fraudolenta, il professore un giorno si spazientì e decise di farne una questione di principio, invase la metà campo di via Calise e urlò che si dovevano togliere dai piedi, che quello era il campo di calcio degli alunni della Silio Italico. Compatii la sua umiliazione, quando lo vidi incassare uno schiaffone in faccia da un ragazzino che gli si fece sotto con la sua migliore virtù, quella dell’immediatezza. Davanti ai suoi alunni, il professore rimase solo e spaesato; quello schiaffo, anziché scatenare una rissa, confermò gli accordi informali condivisi fino a un minuto prima. E continuammo a giocare, separati ma sullo stesso campo, e noi senza la supervisione del prof, che aveva preso anzitempo la via della fortezza di alluminio anodizzato.
Qualche giorno dopo, nell’ora di educazione artistica, un altro professore, che pure in quegli anni, bontà sua, aveva preso un’assicurazione sulla vita non dissimile da quella del collega di educazione fisica, interrompendo la sua lezione su Giotto e Masaccio aprì il quarto d’ora più bello del mio triennio di scuola media annunciando a un uditorio un po’ attonito, un po’ distratto, di ragazzine e di ragazzini dodicenni: Io sono un comunista col pugno chiuso! E dicendo questo, sbracciava il pugno nell’aria. Se sul campo di pallone il vostro professore ha provato a mettervi contro i ragazzi del vicinato, secondo me è giusto che alla fine dal campo se n’è andato lui solo, che era l’unico a sentirsi a disagio. Sì, ha preso uno schiaffone davanti a tutti, ma perché ha preso uno schiaffone? A voi chi vi stava rubando l’aria mentre giocavate a una porta? Ci fu un bellissimo silenzio, molto inusuale e molto lungo, quando il professore di educazione artistica, messa la coppola sulla testa, salutò la classe e uscì dalla porta di alluminio grigio anodizzato.
I prof si erano divisi sul significato da dare a quello schiaffo, ma prevaleva la solidarietà per chi lo aveva incassato, perché lo aveva incassato per difendere ciò che era della scuola e dei suoi alunni dagli assalti di chi alla scuola non apparteneva. Non passò molto tempo e la soluzione del cancelletto con le chiavi affidate a chi aveva punti di vista differenti fu sorpassata per sempre. Sostituendo il muro di tufo con uno in cemento armato, lo Stato recise tutti i contatti informali con i ragazzi di via Calise, le cui armi erano troppo spuntate per aprire una breccia nel nuovo muro. Da allora, la monotonia grigia dell’alluminio anodizzato mi inseguì anche nell’ora di educazione fisica, in cui tutto era ormai regolato da un cerimoniale imposto dall’alto e non da vivaci contrattazioni tra ragazzi.
Molti anni dopo, lo Stato, forse per scacciare per sempre lo spettro dei doppi turni, rimosso il prefabbricato di alluminio, ha costruito una scuola più grande e l’aumento delle cubature di cemento armato ha comportato la rinuncia al campetto di calcio. Chissà se qualche nuovo alunno della Silio Italico abbia avuto l’animo di assestare uno schiaffone a chi gli toglieva la possibilità di prendere a calci un pallone nell’ora di educazione fisica. (pasquale guadagni)
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