“La storia delle patologie infettive è una storia di microbi in marcia,
spesso sulla nostra scia e di microbi che hanno tratto vantaggio
dalle ricche opportunità che abbiamo loro offerto per crescere,
prosperare e diffondersi”.
S. Morse, 1995
“Can we ever expect the unexpected?”, con questa domanda si intitola uno studio del 2012 con cui due studiosi della School of Immunity and Infection di Birmingham provavano a fare il punto sulle malattie infettive di nuova insorgenza[1]. La ricerca di settore, fin dai primi anni Novanta, ha contato, mille e quattrocento patogeni pericolosi per gli esseri umani, il cinquanta per cento dei quali è di origine animale; fra le patologie da essi provocate le più frequenti sono proprio le malattie “emergenti”[2]. All’interno di questo gruppo, inoltre, i virus sono gli agenti predominanti e, tra questi, quelli a RNA rappresentano circa un terzo di tutte queste patologie infettive. Un quadro che prefigura già all’epoca la situazione di questi giorni. Ci sarebbe da gridare alla profezia, se non si trattasse di scienza.
I segnali che lasciavano prevedere una situazione come quella che stiamo vivendo, in realtà, erano stati numerosi negli anni passati e forse avrebbero meritato maggiore attenzione.
Nel 1997, mentre Hong Kong esce dal Commonwealth per “tornare” alla Cina, una notizia apparentemente banale inquieta i virologi. A maggio viene segnalata alle autorità sanitarie la morte di un bambino, in seguito a una “strana” polmonite. Dallo studio dei campioni prelevati viene isolato H5N1, un virus degli uccelli che non avrebbe dovuto trovarsi in quel posto. È un caso isolato ed è chiaro che non si possa lanciare un allarme, però gli studiosi sono preoccupati dalle sequenze geniche virali, all’interno delle quali si trovano mutazioni insidiose che hanno permesso il passaggio dai pennuti all’uomo. In seguito i casi aumentano[3], ma destano preoccupazione solo nei laboratori. Mentre il mondo ammira la sonda Mars Pathfinder nello spazio, si destano antiche paure. Tornano i virus, frammenti di materiale genetico in grado di interferire con il DNA delle cellule umane e provocare patologie infettive e tumorali. Quelle riflessioni, però, rimangono confinate tra gli studiosi, la politica non vi presta attenzione ignorando che le epidemie confinate a popolazioni ristrette di pazienti possono essere “delle prove”, dovute al fatto che il virus non si adatta subito alla specie. Cerca ospiti. Quei “piccoli” episodi epidemici possono rappresentare, cioè, i primi segni di una instabilità virale che poi, attraverso successive mutazioni può colpire un numero sempre maggiore di persone.
Infatti accade proprio questo. Dal 2003 vengono segnalati casi di aviaria nella Cina continentale e in altri quindici paesi nel mondo, per un totale di 397 casi e 249 morti. Molti derubricano il problema a un piccolo episodio influenzale e sbagliano. È un errore fare la conta dei morti per valutare l’entità del problema, nello studio di questi fenomeni bisogna, invece, comprendere le potenzialità del genoma virale mutante e osservare le fluttuazioni della patologia. È quello che è accaduto con la “spagnola” tra il 1918 e il 1919, con una prima fase legata a cluster ristretti ad alcune aree del mondo, e una seconda di “esplosione” in forma pandemica, una volta che H1N1 si fu adattato all’ospite umano provocando milioni di morti.
L’arrivo della SARS, nel 2003, fu un campanello d’allarme importante, purtroppo trascurato proprio perché quel patogeno esaurì relativamente presto la sua diffusione, per la sua natura ancora difettiva, ma come avremmo dovuto imparare dal passato, quella epidemia poteva essere un primo passo. A gennaio scorso lo studio delle sequenze di 2019-nCoV, emerso da Wuhan, chiarì che il “pandemico” che si attendeva era arrivato.
Le epidemie non presentano caratteri sempre prevedibili, l’analisi di quelle pregresse serve a orientare i meccanismi di allerta e prevenzione. Lo studio della diffusione della “spagnola”, dell’“aviaria” e di molte altre aveva indicato chiaramente come temi di ricerca e dibattito le mutazioni virali, il salto di specie e i rischi relativi alle zoonosi “emergenti”. Tutto questo non ha toccato minimamente il dibattito pubblico, a testimonianza del fatto che la distanza fra scienza e società è enorme.
Le Emerging Infectious Diseases (EIDs), sono quelle “infezioni di recente apparizione nella popolazione o che erano già esistenti ma che stanno rapidamente aumentando in incidenza o distribuzione geografica”[4]. Così scriveva l’epidemiologo Morse nel 1990, in seguito alla scossa data dall’emergere dell’HIV. L’AIDS arrivò nel cuore della fase di ristrutturazione capitalistica generando una crepa profonda perché mostrava, dentro il dispositivo culturale di regime fondato su neopositivismo ed edonismo, che la società che si stava costruendo, nonostante i suoi miti di progresso e spensieratezza, era terribilmente fragile. Lo shock della pandemia di AIDS favorì il convergere di studi e ricerche sul problema delle malattie infettive “emergenti” che i progressi della diagnostica cominciavano a rendere sempre più visibili. Sapevano, quei ricercatori, che HIV-1 non era un episodio isolato e che, anzi, la capacità umana di “vedere” in maniera sempre più nitida dentro i processi biologici ne avrebbe portate a galla molte altre. Una previsione decisamente corretta.
Oltre all’AIDS erano molte le patologie infettive di nuova insorgenza che preoccupavano gli studiosi e che rappresentavano un problema importante, travolgendo le popolazioni e le economie delle aree colpite. La febbre della Rift Valley, la sindrome polmonare da Hantavirus, la malattia di Lyme e altre ancora costituivano un problema impossibile da trascurare. Nel 1989 a Washington si tenne un convegno dal titolo: Emerging Viruses: the evolution of viruses and viral diseases, che poneva al centro la necessità di studiare il meccanismo dell’emergenza dei virus e le possibili strategie per anticipare, identificare e prevenire l’insorgere di “nuove” patologie virali attraverso un approccio trasversale alle singole discipline scientifiche. La partecipazione fu aperta, oltre che ai virologi, a infettivologi, biologi teorici, storici, epidemiologi, ecologisti e biologi molecolari, con un approccio che sembra oggi lontano, nell’era delle specialità chiuse dentro uno sterile isolamento.
Joshua Lederberg, premio Nobel per la medicina nel 1958, sottolineò con forza la gravità del problema individuando nei virus gli unici organismi in grado di competere con gli umani per il dominio del pianeta. La loro forza è la notevole “plasticità genetica” che li rende capaci di evolvere in nuove forme ma anche la loro capacità di provocare trasformazioni nelle cellule dell’ospite umano. Il fatto che la selezione naturale alla lunga favorisca il mutualismo, tenda cioè a raggiungere un equilibrio, offre un incoraggiamento limitato, poiché quell’equilibrio si raggiunge al costo di numerose sofferenze e morti. Quello raggiunto in occasione della “spagnola” è costato cento milioni di vittime, un prezzo oggi inaccettabile.
L’elemento importante che nacque da quegli studi multidisciplinari è la considerazione che le malattie virali emergenti non possono essere considerate “eventi improvvisi” e come tali imprevedibili. Queste patologie nascono dall’interazione fra ambiente e umani, che determinano contatti nuovi attraverso territori e popolazioni che i confini geografici hanno fino ad allora tenuto separati. La febbre gialla è arrivata in America come risultato della tratta degli schiavi che ha trasportato la Aedes aegypti all’interno dei contenitori per l’acqua delle navi. Considerarle una sciagura improvvisa è inaccettabile ai nostri tempi.
Era stato già Pasteur a considerare che una malattia epidemica non è un evento “improvviso” ma il risultato dell’interazione fra tre attori principali: umani, altri esseri viventi e ambiente. In questo ampio contesto la virulenza, cioè la capacità del “microbo” di diffondersi e determinare una patologia è il prodotto del rapporto fra la “forza” dell’agente patogeno e la resistenza dell’ospite, immunologica o genetica. Le malattie, quindi, sono prodotti storici e come tali hanno un’origine determinata, una storia naturale e un “destino”. L’emergenza di patologie è il risultato di mutamenti ecologici e sociali, dentro cui si sviluppa un processo di evoluzione biologica. Non c’è nulla di imprevedibile dentro questo processo che è il risultato della coevoluzione fra i germi e la popolazione umana. Considerando il nostro livello di sviluppo tecnologico e la enorme quantità di denaro investita in settori non necessari, possiamo rispondere alla domanda iniziale di Howard e Fletcher. Sì, siamo in grado di aspettarci l’inatteso, basta volerlo. (antonio bove – continua…)
LEGGI ANCHE:
Pandemia#4. Il paese immunodeficiente
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[1] Howard CR e Fletcher NF. Emerging virus diseases: can we ever expect the unexpected? Emerging Microbes and infection, 2012
[2] Woolhouse ME et al. Host range and emerging and reemerging pathogens. Emerg Infect Dis, 2005
[3] Shortridge KF et al. Characterization of avian H5N1 influenza viruses from poultry in Hong Kong. Virology 1998
[4] Morse SS et al. Emerging viruses: the evolution of viruses and viral diseases. J Infect Dis 1990
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