Le due serate di presidio a Santa Maria Maggiore, a Roma, per la liberazione della capitana Carola Rackete dopo l’arresto a Lampedusa, avevano qualcosa di speciale. Soprattutto la seconda, domenica 30 giugno, quando una ragazza ha proposto di parlare seduti, di parlare poco e di parlare tutte, quello che sarebbe stato il solito comizio gridato, indignato, a carico di gente avvezza a usare il microfono o il megafono, si è lentamente trasformato in altro. Da sedute, rivolte al cerchio, ma anche al Ministero degli Interni lì vicino, hanno parlato anche persone che non erano abituate agli interventi in pubblico. Tra queste, un ragazzo di quattordici anni, che ha ricordato che quando per strada viene additato come zecca o come negro per la sua maglietta o il suo aspetto fisico, quello che è all’opera non è tanto il razzismo o il fascismo, quanto il capitalismo, che si basa sulla creazione di differenze e di odi tra pari, e che fa profitti proprio su queste divisioni.
A sprazzi, questo cerchio di gente seduta a parlare mi ricordava altri dibattiti in altre epoche. Soprattutto, le occupazioni delle piazze del 2003 a Barcellona, in protesta contro la guerra in Iraq. C’era stata una manifestazione mondiale, il 15 febbraio, ma poi la decisione di rimanere in piazza con le tende era nata da un fermento locale: non si poteva tornare a casa, bisognava fermarsi a capire insieme cosa fare. E soprattutto, non si poteva continuare a far funzionare la città come sempre: il petrolio con cui si alimentavano le macchine, era lo stesso che gli eserciti conquistavano con le armi in Medio Oriente; solo modificando radicalmente le nostre vite quotidiane avremmo potuto influire sul corso degli eventi. Siamo rimasti a Pla del Palau, a plaça Sant Jaume e a plaça Francesc Macià, dal 23 marzo al 1 maggio 2003; quegli accampamenti non hanno certo fatto finire la guerra in Iraq, e Bush disse proprio: «Non saranno le proteste di Barcellona a farci cambiare idea». Sicuramente però hanno influito sulla città. I legami e le pratiche di lotta vissute allora, che già si nutrivano di legami e pratiche precedenti, hanno alimentato le proteste dei decenni successivi.
Gli accampamenti infatti sono tornati anni dopo, con le proteste dei migranti per la sanatoria, poi ottenuta; e dopo, molto più grandi, con il 15M e gli Indignados. Altre piazze, stesse modalità, stessi problemi: come rapportarsi ai senzatetto che già occupavano le piazze, e che volevano partecipare a modo loro? Come evitare che partiti o fazioni si appropriassero delle mobilitazioni? Cosa fare quando la polizia minacciava lo sgombero? Come prendere le decisioni insieme, senza lasciare decidere i leader? Il fenomeno del 15M ha cambiato la storia politica del paese, in linea con una modalità nuova e orizzontale di protesta collettiva, che va da Occupy, al Nordafrica, ai gilet gialli; oggi le assemblee dei quartieri a Barcellona, ma anche il movimento per l’indipendenza, usano pratiche e forme di dibattito nate allora. Insomma, centinaia di persone che si fermano e occupano una piazza – con tende e sacchi a pelo, gazebo improvvisati, cucine da campo e agorá presenziali, non virtuali né mediatiche – hanno un impatto enorme. La città neoliberale funziona solo se la gente circola, fermare questo flusso per creare uno spazio di dibattito è il primo grande attentato all’ordine sociale. “Fermare la città per fermare la guerra”, era uno slogan del 2003. Per questo gli accampamenti sono sempre minacciati di sgombero, o sgomberati, come di recente a Torino.
Per adesso, a piazza Santa Maria Maggiore non è nato un accampamento. Verso l’una o le due di notte, sia sabato che domenica, sono andati quasi tutti via; se un gruppetto è rimasto a dormire, l’ha fatto senza farsi troppo notare. Ma chissà che la voglia di parlare di persona non ci spinga finalmente a lasciare le bacheche dei social media? Bisogna creare non solo frammenti di dibattito, alcune ore settimanali di assemblea, ma strutture permanenti di incontro e di scambio di idee, come quelle che stanno nascendo in altre parti d’Europa: spazi aperti e conviviali, costruiti collettivamente, in cui la protesta diventi soprattutto creazione di nuovi legami e tentativo di risolvere i problemi insieme. Ma nel dibattito di domenica si riconosceva la presenza di alcuni ostacoli: i cosiddetti “strumenti anticonviviali”. Io ne ho individuati tre: la logica coloniale, i partiti politici, e il linguaggio televisivo.
Il primo è il più pervadente. C’è una forma particolare che prende il discorso coloniale oggi, che è la retorica umanista, caritatevole, paternalista, che vede gli immigrati come vittime e i bianchi come carnefici o salvatori. È il discorso delle ONG e delle varie chiese, che, anche se benintenzionato, ha le sue radici nell’idea illuminista che c’è una comune umanità, ma che la battaglia per salvarla o distruggerla si svolge in Europa. Alla destra assassina si oppone una sinistra umanista, cosmopolita, universalista. Concentrandoci sull’umanità, dimentichiamo che essere umani non è per forza un valore positivo: anche i fascisti di Casa Pound sono umani, anche Salvini, anche Donald Trump. Ma soprattutto, che se Carola salva quegli esseri umani, non è perché sono esseri umani, ma perché è giusto farlo: insistere sull’umanità ci fa dimenticare un concetto ben più importante, che è la giustizia. Il colonialismo europeo legittimava violazioni anche estreme dei diritti dei nativi, ammantandosi di un discorso umanista, secondo cui i popoli sottomessi dovevano essere velocemente “condotti” verso la loro stessa umanità, a ogni costo, e dagli europei, gli unici considerati in grado di farlo. Se conduciamo le nostre battaglie in nome dell’umanità, dimentichiamo che esse sono in realtà battaglie per i diritti civili, delle minoranze, degli sfruttati e dei nativi. Altrimenti la lotta per la giustizia si scioglie in rivoli di compassione e paternalismo.
Il secondo strumento anticonviviale sono i partiti, e come conseguenza, l’abitudine molto radicata, anche tra chi protesta, a cercare referenti e delegati nelle personalità pubbliche e nei famosi. L’intervento in piazza di chi chiede di chiamare Zingaretti a rendere conto della posizione del PD, è analogo alla conversazione in cui ci si augura che scenda in piazza qualche famoso che abita lì vicino, magari il regista Sorrentino, che renderebbe più “visibile” la protesta. Ma questo tipo di visibilità sarebbe solo un ostacolo alla nascita di un vero movimento. Ogni figura visibile diventa subito un bersaglio, entra nel gioco disgustoso del je suis e degli insulti. Il senso dell’espressione “potere al popolo” è che dobbiamo lasciar perdere la contesa elettorale e le personalità mediatiche, che usano grammatiche sovradeterminate che ci vedranno sempre perdenti. I movimenti che si radicano e che diventano davvero un deterrente per certi progetti o per certi processi sono quelli che non hanno capi né portavoce riconosciuti, come la lotta No Tav, che è un movimento di popolo, non una folla che segue un uomo forte. Dobbiamo essere noi a dettare ai politici la loro agenda, non sperare che ci includano nella loro.
L’ultimo, il più insidioso, è la televisione. Esposti per decenni a un certo linguaggio, che modella anche la nostra lingua, è difficile non sentirci parte di un talk show appena abbiamo un microfono in mano, appena abbiamo davanti un pubblico. La dinamica stessa dell’applauso a chiunque apra bocca, è figlia della televisione: ha una funzione, quella di creare una barriera tra chi parla e chi ascolta. Dobbiamo smettere di essere pubblico che applaude, diventare popolo che prende la parola, la piazza, e la decisione. Certe espressioni che ci vengono spontanee, e che ripetiamo senza accorgerne, sono direttamente figlie del mondo dello spettacolo: “Siete una piazza bellissima” o “Facciamo un applauso”, addirittura “Grazie e buona serata” alla fine dell’assemblea. La televisione è uno strumento anticonviviale, crea gerarchie e barriere, invece il nostro modo di parlare in piazza dev’essere sempre conviviale, mai mirato a strappare applausi o consensi, ma a infiammare gli animi, a svegliare le intelligenze, a far venir voglia di stare insieme.
Uscendo dalla piazza, discuto con un ragazzo tunisino fuori da un bar. Ce l’ha con Salvini, con il fascismo che cresce, ammira il gesto della capitana Rackete, vorrebbe che si sviluppasse un movimento. A che serve questa manifestazione, dice? Stanno solo lì in piazza a farsi le canne. Io non ho avuto quest’impressione, rispondo. Ma il suo messaggio è un altro: lì dentro si fanno sempre le stesse cose, si parla nello stesso modo, non stiamo cambiando niente. Non so se è vero, a me pare che ci sia qualcosa di nuovo, che magari lui non ha visto. Non ha avuto voglia di venire in piazza. Mercoledì 3 ci rivediamo davanti al Parlamento alle tre di pomeriggio, e domenica torneremo lì in piazza, gli ho detto di venire anche lui. Mi ha risposto di sì, che forse ci viene. (stefano portelli)
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