
Non guadagnare tempo ma perderlo. Con questa regola giacobina l’estate è volata, lasciando trucioli di matita nel cortile, odore di Autan nei giardinetti e la punta della lingua stretta tra i denti. Pochi compiti, zero appunti, nessuna preparazione alla vita ma la vita stessa, noia inclusa. Se educazione devo chiamarla, è stata allegramente negativa, un uovo sodo che si spacca.
Mentre ci liberavamo dai nostri bisogni, descolarizzandoci a vista d’occhio, nel quartiere Barona della Zona 6, che dalla Darsena arriva a Corsico, nasceva quartiereEDUCANTE, progetto di “educazione gaia e diffusa” basato sulle teorie pedagogiche di Paolo Mottana, professore di Filosofia dell’Educazione all’Università di Milano Bicocca, tra i fondatori di Tutta un’altra scuola e dell’Istituto Ricerche Immaginali Simboliche & Controeducazione. La sua idea, che tiene insieme Ivan Illich, Charles Fourier e Hans Magnus Enszenberger, è “liberare i bambini dalla reclusione scolastica e stimolare la loro partecipazione nella società, riportandoli nella vita reale della città da cui sembrano spariti”. In questi giorni apprendo che la sperimentazione potrebbe partire a settembre 2018 in una prima media statale della scuola intitolata ad Antonio Gramsci, il fondatore del Club di vita morale che all’infanzia come “sgomitolamento” contrapponeva la teoria della formazione-coercizione e alle influenze caotiche dell’ambiente preferiva la “disciplina”. Ma ai suoi tempi il quartiere Barona era tutta campagna.
Un gorgoglio al ventre, come il rumore di troppe responsabilità, mi fa ricordare delle foto in bianco e nero. Solo cinque sono uscite dall’oscurità, le altre sono finite nel sottosopra del mondo reale, dove la sporcizia tiene caldo. Che cosa hanno fotografato? Quello che vedono affacciandosi ai balconi di casa, macchine parcheggiate e dediche sul muro da un lato, altri balconi dall’altro. Poi una gru che per loro significa città e il cartone animato che guardano in tv, quello dove tutti hanno i poteri magici e dove la mamma è bellissima, anche se in foto è venuta con gli occhi chiusi.
Con il sole e con il vento abbiamo riaperto gli occhi, è ricominciata la scuola quindi il doposcuola. In una stanza nuova, arredata con i mobili regalati dall’Ikea: sedie bianchissime, tavoli tamburati e un mappamondo di tipo politico da far girare tra le dita. Loro si sono allungati, hanno visi più spigolosi, gli astucci gonfi e le scarpe nuove. Dopo aver sottolineato le parole che contengono sci e sce, addizionato cifre a caso e scoperto che in terza elementare le righe si restringono ma i margini laterali rossi rimangono, iniziamo subito con questioni ontologiche, leggendo un “racconto realistico” che parla di un ragazzo e del suo porcospino.
«Che cosa vuol dire reale?», gli chiedo sapendo di insinuare. «Vuol dire che è normale, che è accaduto», mi risponde con convinzione. E io quasi inavvertitamente: «Mi fai un esempio di una cosa non reale?». Lui cerca la risposta nell’aria, la trattiene sulle labbra e poi la sputa da un angolo della bocca: «Un uomo che si trasforma in una donna». Ecco, mi dico, è arrivato il momento: mano nella mano usciremo dal ventre della balena, dalle categorie, dagli stereotipi imposti dal pensiero eterocentrico, staremo nel genere come si sta in un luogo precario, disfatti l’un* dall’altr*, attenderemo l’impossibile e l’inimmaginabile.
Appiccicata di mucosa e stordita da gender b(l)ending e middlesex, gli dico che il suo esempio non è corretto, che un uomo può diventare donna e viceversa. Glielo spiego abbastanza bene, proprio come accade, a livello fisico – con le operazioni, gli ormoni, i seni che spuntano o la barba che cresce, la voce che può cambiare – e a livello psicologico con il discorso sull’identità, ciò che si sente, la propria natura. Tutto ciò facendo gesti, mimando la biologia e inciampando nelle costruzioni culturali, a metà tra Superquark, un tutorial e una pubblicità. Lui si arriccia intorno al naso, come se gli avessi annunciato l’arrivo di una flotta di dischi volanti ad attaccare la terra, poi risistema occhi e bocca al posto giusto e mi dice: «È strano». E io: «È reale. Fammi un altro esempio». E lui, neutralizzando il genere, risponde: «Un oggetto che si muove da solo». Anche se mi viene in mente il Pritaneo, il tribunale di Atene che giudicava anche gli oggetti inanimati e in caso di incidente li processava, condannava e distruggeva, me ne sto zitta, faccio di si con la testa e mi decido a far marcire le risposte. Sono le domande che devono durare. (giusy palumbo)
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