Domenica, 11 agosto 2019. Arrivo in piazza Garibaldi appena in tempo per sentire qualche parola prima della preghiera. La folla è ordinata, gli ultimi arrivati si affrettano correndo con il tappeto sotto il braccio. L’impatto è forte. Il colpo d’occhio c’è, soprattutto quando i fedeli si genuflettono lasciando intravedere a chi resta in piedi la fine della fila. Molti arrivano alla stazione centrale dalla cintura periferica e dalla provincia di Napoli, molti altri dall’area urbana che si estende intorno a piazza Garibaldi; è lì che i musulmani si danno appuntamento ogni anno per festeggiare l’aid al adha, la festa del sacrificio ordinato da Dio, Allah, ad Abramo, Ibrahim. Anche lo scorso 11 agosto, il 9 dhu l’hijja 1440 secondo il calendario islamico, il lato sud di piazza Garibaldi è diventato lo spazio della preghiera collettiva per celebrare i giorni della letizia, coperto da migliaia di tappeti che, uno accanto all’altro, hanno formato un unico manto a coprire il selciato.
Nel giorno della festa piazza Garibaldi è l’immagine dell’unità della comunità dei fedeli, la umma islamica una e indivisibile. Come in un tappeto, le storie dei musulmani sono i fili che disegnano una trama collettiva che si intreccia con l’ordito della città. Ma non è stato sempre così; solo negli ultimi anni le festività si celebrano in collaborazione tra diversi gruppi e associazioni, su spinta delle autorità cittadine. L’immagine di unità sbiadisce alla fine dei giorni della letizia, quando si lascia piazza Garibaldi per imboccare le vie che da essa si diramano e che portano alle sette moschee dell’area intorno alla stazione centrale. Il corpo unico si fa plurale.
Nel giorno della festa la prima fila dei fedeli è composta dai rappresentanti delle comunità islamiche napoletane. Tra gli altri Massimo Abdallah Cozzolino. A Zayd Ibn Thabit, colui che fu tra i primi e più importanti custodi della rivelazione coranica a Muhammad, sigillo dei profeti, è intitolata l’associazione culturale islamica di piazza Mercato di cui Cozzolino è responsabile, una delle moschee storiche della città. A essere precisi è un luogo di culto con un’ampia sala di preghiera, fontane per le abluzioni rituali, una barberia, deposito e uffici. Di moschee progettate e costruite per essere tali ce ne sono poche in Italia. In questo senso a Napoli non c’è una moschea, almeno non ancora. Ci sono però i musulmani che si organizzano in associazioni e che prendono in affitto o acquistano luoghi per le esigenze del culto, è un’azione di presenza in città che alcuni studiosi hanno definito “appropriazione religiosa dello spazio”; essa non si limita ai luoghi di culto e riguarda, per esempio, la vendita di prodotti halal o gli spazi cimiteriali.
A piazza Mercato i musulmani sono arrivati in un quartiere con una forte tradizione commerciale – inaugurata dagli Angioini che trasferirono extra moenia, oltre le mura della città, il centro commerciale cittadino –, entrata in crisi con la progressiva ri-localizzazione delle attività fuori dallo spazio urbano, precisamente a Nola con l’apertura del CIS (Centro Ingrosso Sviluppo), l’Interporto e poi il centro commerciale Vulcano Buono. I tessuti, i tappeti e i fili, ammassati sui banchi dei commercianti, trovavano in quella piazza il punto di partenza della loro distribuzione. Ancora oggi sono presenti negozi di tessuti e tappeti al fianco dei quali nascono centri servizi per i migranti, phone center e internet point, punti vendita di bigiotteria dai quali si riforniscono gli ambulanti della città, agenzie di viaggio, negozi che commercializzano prodotti halal e, appunto, moschee che trasformano e danno nuova vita al quartiere. Nell’area di piazza Mercato sono nati altri due luoghi di culto, entrambi gestiti dai bengalesi, che rappresentano la componente più numerosa della comunità islamica cittadina dopo quella dei pakistani, secondo i dati Istat del 2019. Sono le cosiddette moschee etniche.
Massimo Abdallah Cozzolino, che conosce bene la città e le sue comunità islamiche, racconta della nascita di nuovi luoghi di culto negli ultimi anni. Proprio fuori dall’ufficio in fondo alla sala di preghiera dove ci sediamo a parlare, poco oltre la storica moschea dell’associazione Zayd Ibn Thabit, ci sono i due luoghi di culto bengalesi che hanno suscitato i malumori di alcuni residenti e di rappresentanti dei partiti anti-degrado. «La comunità bengalese – dice Cozzolino – originariamente veniva qui a pregare. Ora si sono creati addirittura due luoghi di culto a distanza di cinquanta metri l’uno dall’altro. Questo comporta un dispendio di risorse, perché un locale qui non costa poco. In area Garibaldi è stata acquistata anche una nuova moschea da parte della comunità di corso Lucci, adiacente a quella pakistana. C’è un’altra comunità storica della città, quella senegalese, che ha un luogo di culto nei pressi di via Torino. Si tratta di un’altra moschea etnica: lingua nazionale, poco arabo, non italiano. C’è poi un altro luogo di culto, la moschea As-salam, che è stata acquistata e che si trova anch’essa nei pressi di via Torino».
La storica moschea di piazza Mercato è, invece, in locali di proprietà del comune di Napoli. È la seconda moschea nata in città dopo quella di corso Lucci e ha una storia particolare, a partire dalla presenza dei convertiti nella gestione amministrativa e religiosa del luogo. È una storia nota anche per il successo di Napolislam, il lavoro di Ernesto Pagano, un documentario e un libro che raccontano le storie di alcuni “ritornati” (convertiti) all’islam. «Caratteristica di questo luogo di culto – prosegue Cozzolino – è che ha sempre avuto rapporti con le istituzioni, forse anche per la presenza di italiani. Dal 1989 si è dovuto fare un lavoro di adeguamento della struttura, e per la verità ci siamo sempre opposti alle aperture di luoghi di culto senza regole. C’è la libertà religiosa, senz’altro! La mattina puoi aprire il tappeto e pregare in piazza Garibaldi, nessuno te lo può impedire. Ma non puoi aprire un luogo di culto in modo assolutamente arbitrario. E qui le responsabilità sono dell’amministrazione».
Le responsabilità, secondo Cozzolino, non si limitano all’apertura senza regole delle moschee ma riguardano alcuni aspetti del godimento dei diritti relativi all’esercizio del culto. La terza città del paese, con una forte presenza di musulmani, centro importante per i fedeli che abitano province e periferie della regione, non ha mai realmente discusso di una moschea cittadina progettata e costruita per essere tale; inoltre, non è stata ancora risolta la questione dello spazio cimiteriale da dedicare alla sepoltura islamica e il trasporto all’estero della salma resta una pratica comune.
Le difficoltà delle comunità islamiche napoletane, però, sono simili a quelle dei musulmani su tutto il territorio nazionale e hanno una radice comune: il mancato raggiungimento dell’Intesa – lo strumento previsto dalla Costituzione all’articolo 8 per regolare i rapporti con le confessioni religiose diverse da quella cattolica – tra lo stato e la seconda comunità religiosa del paese in termine numerici dopo quella cristiana (più precisamente dopo quella cattolica e quella cristiano-ortodossa, quest’ultima composta perlopiù dai migranti provenienti dall’Europa orientale). Per questo motivo spesso la gestione delle esigenze dei musulmani è affidata alla discrezione delle amministrazioni locali. I risultati sono spesso scarsi, dato il vulnus giuridico. Anche la giunta de Magistris non è riuscita finora a soddisfare le richieste almeno di una parte della comunità dei musulmani. Insomma, oltre l’immagine di Napoli città aperta ci sono le difficoltà di inserimento delle comunità nel tessuto urbano che sono comuni ai processi di trasformazione ed espulsione tipicamente metropolitani.
Napoli, piuttosto, si cuce, si scuce e ricuce, a comporre un tessuto difficile e disordinato che ricorda le opere di Maria Lai. Seguendo le storie dei musulmani tra piazza Mercato e la stazione centrale, appare una trama ricca, a volte nascosta, che rompe la retorica della città accogliente. Ricucire il mondo è l’opera di Maria Lai esposta al Madre, il museo d’arte contemporanea di Napoli, che ricorda una tessitura scomposta come appare oggi piazza Mercato, dove i tappeti che si commercializzano sono ormai pochi, mentre sono sempre di più quelli sui quali si prega rivolti verso La Mecca. (nicola di mauro)
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