L’oggetto della contesa è un orologio costoso. Chi lo possiede lo sfoggia, chi no lo anela, qualcuno tenta di rubarlo. Ma cosa c’è dietro tutto questo? Non è che un rapinatore oltre alle brame superficiali individua sotto sotto anche un nemico di classe? Quel ricco – o vogliamo chiamarlo capitale? – che ci impone i suoi modelli negandoci la possibilità di raggiungerli. E sì, sono parole forti, ma vi pare tempo di mezze misure? Quest’anno due minorenni sono stati uccisi a seguito di tentativi di rapina a mano armata di pistola giocattolo. Avrebbero dovuto fare dei percorsi rieducativi (altro capitolo), non pagare con la pena di morte.
Di questi ragazzi ci piace talvolta ascoltarne la lingua nelle canzoni, nelle serie tv, sottotitolata. Per il resto chi li vede? Se ci costringono a sentirli, nei treni estivi per esempio, quando schiamazzano nella direzione del mare, li si elude facilmente puntando lo sguardo fuori dal finestrino. Quando se ne sente il rombo dei motorini sfreccianti è più un miraggio che altro, di giorno spesso dormono e di notte vestono di nero, come quei sempre più temuti pipistrelli, piccoli ma diffusori di una malattia contagiosa: i compagni lo hanno portato su una brutta strada. O forse sono proprio neri agli occhi di chi li deve pre-giudicare?
Io sono un uomo invisibile. No, non sono uno spettro […]. Sono un uomo che ha consistenza, di carne ed ossa, fibre e umori, e si può persin dire che posseggo un cervello. Sono invisibile semplicemente perché la gente si rifiuta di vedermi: capito? […] Quando gli altri si avvicinano, vedono solo quel che mi sta intorno, o se stessi, o delle invenzioni della loro fantasia, ogni e qualsiasi cosa, insomma, tranne me.
Né d’altra parte questa invisibilità si può attribuire a una particolarità biochimica della mia epidermide. L’invisibilità di cui parlo si verifica per la speciale disposizione degli occhi di coloro con i quali vengo a contatto. Dipende dalla struttura dei loro occhi interni, quelli cioè coi quali, attraverso gli occhi corporei, guardano la realtà. È a volte vantaggioso essere invisibile, anche se, per lo più, la cosa ha un effetto alquanto snervante. C’è poi anche il fatto che le persone di vista corta urtano continuamente contro di te. E ancora, dubiti spesso della tua esistenza, e finisci per chiederti se non saresti per caso un semplice fantasma nella mente degli altri. […] Quando hai questa sensazione, ti vien voglia di restituire gli urtoni, per la rabbia. E vi confesserò che questa sensazione ce l’ho quasi sempre. Ti prende la smania di convincere te stesso che esisti veramente in un mondo reale, che fai parte anche tu del clamore e dell’angoscia, e cacci fuori i pugni, e imprechi e bestemmi per costringerli a riconoscerti. E purtroppo ci riesci di rado.
Sono così neri che a una delle manifestazioni in solidarietà col movimento Black Lives Matter si è visto il padre di uno dei ragazzi uccisi, con al seguito la comunità che dal dolore e da una nuova consapevolezza sta nascendo attorno a lui. Fuori all’Ambasciata americana alcuni neri di pelle forse non hanno nemmeno gradito, perché effettivamente è difficile comprendere che possa esistere una sorta di segregazione razziale all’interno di una grande città occidentale. Eppure questi negroletani vengono trattati esattamente allo stesso modo di George Floyd, da secoli, tanto che la sedimentazione dello stigma nasconde i suoi effetti persino a coloro i quali lo subiscono. Si può e si deve fare molto, la prima cosa forse è mettersi in ascolto.
* * *
Io e Ugo ci conosciamo da quando eravamo piccoli, quanti ricordi teniamo insieme. Una volta, potevamo avere dieci undici anni, eravamo all’Educativa, sull’Ospedale militare, facemmo testa e testa, a lui si ruppe il naso e usciva molto sangue, a me si fece un livido enorme, erano tutti preoccupati che ci eravamo fatti male. Poi ricordo un periodo in cui andavamo a ballare in una piccola discoteca che c’era qua, ai Quartieri Spagnoli, erano i tempi della Piazza nuova (Montecalvario, ndr). Stavamo sempre insieme. Ugo era bello, appena gli dicevi qualcosa che non gli garbava cominciava a farsi rosso in faccia. Non era proprio quello che hanno detto le televisioni, un criminale… ma quando mai? Ha sempre lavorato: come barista, muratore… quando lavorava dal fruttivendolo io spesso gli facevo compagnia, fino alle cinque nella bottega. Adesso vanno dicendo che è sempre stato un rapinatore, che ha fatto cinquanta rapine, ma dove? Ugo era buono, solo a dirtelo mi viene il freddo addosso. Non sanno e giudicano.
Quando siamo cresciuti abbiamo cominciato a frequentare San Matteo. Ugo mi trascinava là perché c’erano le ragazze. Con gli altri è nata una fratellanza, frequentavamo pure un progetto nel Pio Monte della Misericordia, a Forcella, eravamo una cosa sola. Andavamo a bere, a ballare, al mare. Una volta mi depilai – non me lo posso mai scordare – e mi uscirono tutti puntini rossi sulle gambe, a casa mia non c’era nessuno e non potevo recuperare il costume, allora me lo prestò Ugo, lo tengo ancora conservato, era a fiori, che risate, e ovviamente sulla spiaggia mi hanno messo in croce! Ci scambiavamo sempre i vestiti, era come un fratello, credimi.
Era un ragazzo come noi, ha fatto uno sbaglio, doveva essere arrestato, ferito al massimo, ma non ucciso. Sono tanti i motivi per i quali lui quella sera può aver deciso di andare a fare una rapina. Sai, certe notti c’è come un’adrenalina, e si vuole far capire agli altri che si è grandi, che non si ha paura di nulla. Oppure, che ne so, aveva bisogno di soldi e anche se il padre non glieli avrebbe negati (ne sono stato testimone), voleva procurarseli da solo, per principio.
Quando è successo io avevo appena finito di lavorare, facevo il pizzaiolo. Mi chiamò mia nonna dicendomi di non scendere di casa perché stava succedendo qualcosa, c’era casino tra i vicoli. Io ero stanchissimo e le dissi che non sarei sceso, staccai il telefono e mi misi a letto. La mattina, era di domenica, mi richiama la nonna e non trovava le parole per dirmelo: mi cadde il cuore nei calzini, non me lo aspettavo proprio. Io giocavo a calcio con una squadra e dovevo andare a fare una partita, stavo in mezzo al campo come un morto. All’inizio, anche quando è tornato a casa nella bara, tanto era il dolore che non mi uscivano lacrime, come se non riuscissi a farmi capace che un mio fratello potesse stare in una scatola di legno. Pensavo fosse tutto un incubo, cercavo qualcuno che mi desse un pizzico per svegliarmi. Non si può accettare una cosa del genere. Mi passavano avanti tutte le cose fatte assieme.
Anche se non ho mai fatto questi sbagli so come funziona. Chi sceglie la preda di una rapina valuta molte cose. La prima è che chi ti è di fronte ha più soldi di te, te ne accorgi dall’oro che porta addosso, dalla macchina che tiene, dal motorino, ma anche dalla faccia. Si vede subito se sei nu bravu guaglione. Al contrario, quando loro vedono a noi vedono un visitor, gli arriva sotto uno tutto nero, incappucciato, magari armato.
Le guardie si sentono impunite, sparano convinte che dopo non gli succede niente. Se io facessi un morto mi farei almeno quindici anni di galera, invece un poliziotto con pochi anni di pena sospesa se la cava (vedi la storia di Davide Bifolco). Perciò si deve lottare per la giustizia, si devono fare mille cose, altrimenti questi prendono il sopravvento. Ci trattano come fanno con i neri in America, si sentono superiori, se ti fermano si atteggiano. Io sono più piccolo di te, però trattami con rispetto, proprio perché sei delle forze dell’ordine dovresti dare l’esempio. Ogni volta che mi fermano e mi trattano male io non dico niente per educazione e perché non voglio casini, però è sbagliato, perché mi mancano di rispetto. Se ti fermano i falchi partono in quarta, ti dicono: so che tieni un coltello, oppure la cocaina, la pistola, e con certi modi che neanche ti dico. È vero, capita che qualcuno queste cose le tiene davvero, ma non puoi farlo con tutti come se fossimo già colpevoli. Alla base ci vuole educazione, anche per farti aiutare dagli altri. Perché se ti fermano le guardie in una piazza, se tu ti sei fatto volere bene le persone si avvicinano e glielo spiegano ai poliziotti che sei un bravo ragazzo, se invece sei sempre stato scostumato e ti sei comportato male quelli pensano: munnezza eri e munnezza rimani. Se hai valori giusti vai sempre avanti.
Io ho diciassette anni, ho fatto solo il primo anno delle superiori, poi la professoressa di italiano prese una capata e mi dissi che me ne sarei dovuto solo andare via. Pensa, in una classe di trenta casinari se la pigliava sempre con me e un altro paio. Però mi piaceva andare a scuola.
Mio padre fa il barista in un ospedale da quaranta anni, mia mamma è casalinga, loro mi darebbero tutto. Io però non voglio dipendere da nessuno, sento di tornare criaturo a cercargli dei soldi. L’ho capito quando ho smesso la scuola. Sono stato un anno fermo, mi sentivo un ricuttaro, allora ho cominciato a lavorare. Ho fatto prima il pizzaiolo, poi sono passato a Uber, ma mi sono dovuto iscrivere con il contatto di mio padre, perché non si può fare da minorenne. Prima devi caricare la patente e l’assicurazione e aspettare che loro ti accettano, se va bene ti mandano la borsa per le consegne e cominci a lavorare. Segui le notifiche del cellulare, passi a ritirare le pizze, e poi il telefono ti guida fino a sotto al palazzo della signora che ha ordinato. In base ai chilometri che facevo guadagnavo e mi accreditavano i soldi sulla postepay di papà. Una volta sono arrivato a via Argine, uno stradone enorme, tenevo paura perché il mio mezzo è tutto smantellato, ti dico la verità. Comunque questo per me è un buon lavoro perché a Napoli se lavori da qualunque altra parte abbuschi massimo quaranta/cinquanta euro a settimana. Invece con Uber riuscivo a tirare su anche duecento, duecentocinquanta; a diciassette anni non sono male. Decidevo io quanto lavorare, non dipendevo da nessuno, nessun masto che ti stressa perché fai dieci minuti di ritardo. Ci sono anche dei bonus ogni tanto, tipo sessanta euro se riesci a fare nove consegne dalle sette alle dieci. Ci tenevamo compagnia con gli altri in certi punti della città, si fa amicizia, e quando parte la chiamata ci si separa. Adesso il motorino si è rotto e non posso più lavorare.
Anche con Luigi siamo cresciuti assieme, tengo le foto sul telefono di quando eravamo tantilli. Lui abitava ai Quartieri Spagnoli, poi con la famiglia si trasferirono a Forcella, però tornava spesso perché veniva a trovare sua nonna. Da piccoli andavamo sempre all’AQS (Associazione Quartieri Spagnoli ndr), quando stava sul Cristallo. La sera in cui è stato ammazzato sono stato con lui, era sabato, siamo stati ai baretti di Chiaia, abbiamo parlato, scherzato tra di noi, eravamo tanti. Dopo mezz’ora inizia a girare la voce che hanno ucciso qualcuno fuori alla Marina, allora ci mettiamo in sella e andiamo a vedere, si vedeva uno a terra coperto da un panno bianco, volevamo capire chi era ma le guardie te ne cacciavano, non potevi neanche cacciare la testa. Me ne andai con l’intenzione di sapere chi era, mi misi a cercare sul telefono le notizie ma niente. La mattina dopo mi venne a svegliare un amico e mi disse che era morto Luigi. Non ci credevo, ero ancora tra veglia e sonno, lo cacciai malamente dicendogli di andarsene e non scherzare così. Ma era vero, e per me è stata un’altra botta. Due amici persi nel giro di sei mesi.
Alcuni reagiscono dicendo che oggi le rapine non si possono fare più perché le guardie ti uccidono, altri dicono che è meglio andarle a fare fuori, altri ancora – i più arrabbiati – dicono: adesso vado a fare la rapina con la pistola vera, così se mi sparano gli sparo pure io.
Arriva sempre un periodo della tua vita nel quale pensi di fare uno sbaglio. Forse prima di queste perdite non mi sarei fatto nessun problema, avrei pensato: alla fine mi sto solo prendendo cento euro da qualcuno. Mi dispiace pure l’idea di prendermi soldi da una persona che magari ha lavorato tutta la settimana, ma quando non tieni soldi non pensi a niente. Per fortuna non l’ho mai fatto e credo che l’importante sia trovare qualcosa che ti frena. Ecco, il mio freno è stata la morte dei miei due amici.
A volte mi metto in un angolo e penso che loro due non ci sono più, erano ragazzi come noi, si va al manicomio a pensarci. Ogni volta che mi ritiro a casa e mi metto a letto comincio a ripensare a tutte le giornate che ho passato con Ugo e Luigi. Fino a quando sto per strada riesco pure a distrarmi, parlando con uno, con un altro, ma il letto è micidiale. In particolare Ugo, con cui l’ultimo periodo eravamo sempre assieme, mi pare di vederlo arrivare ogni volta che mi affaccio alla finestra, lo vedo arrivare sul mezzo verde della mamma (facevamo sempre i cavalli su quel motorino), mi veniva a chiamare alle nove di sera. Gli dicevo: Ugo ma hai già mangiato? Sì, rispondeva.
* * *
Lo avevo già scritto, ma nel frattempo le cose non sono cambiate e allora lo ricopio: è come se la strada percorsa dai motorini portasse dritta dritta, impennando, sulle colonne delle Cronache di Napoli. Immutato il contesto, il percorso è obbligato. Ma come interrompere “il flusso delle lacrime ereditarie”? Assai diffusa è l’illusione che isolandola, l’enclave si possa dissolvere. E invece serve frequentarsi, urgono complicità ed evoluzione, tanto più che il chiacchiericcio civile auspica un’estinzione che ha del magico.
Una minoranza di minorenni, tutt’altro che stupida, fiuta il razzismo che le viene scagliato addosso e si rifugia – per risparmio energetico – in un ritratto identitario che le è stato fornito ad arte. È così che queste paranze si vanno incarognendo, finendo col compiacersi, ammirandosi (in un ritratto che di Dorian ha solo il Grey) nello specchio deformante delle cronache, nei riflessi dei film, o di quei libri (non letti ma visti nelle serie tv) che però – è bene chiarirlo – non da loro in carne e ossa traggono spunto, ma dai dispacci cinico-sintetici della questura per la trama, dai professori di dialetto per la lingua, ritagliando figure senza dimensione ma luccicante attraenza; oppure, ancora una volta, si rivedono nelle canzoni dei loro beniamini, registrazioni con meno velleità artistiche certo, ma almeno – queste sì – in presa diretta.
Allora ci chiediamo e vi chiediamo: non è, ragazzi, che gli servite così? Capretti espiatori per propiziare il risorgere continuo della sudditanza travestita da potere criminale? In fin dei conti, scrisse Samuel Butler, la gallina è il sistema usato dall’uovo per fare un altro uovo. (cyop&kaf)
Leave a Reply