Martedì 16 luglio, il giorno dopo lo sgombero di una scuola occupata da trecento persone nel quartiere Primavalle a Roma, il Viminale manda una circolare a tutti i prefetti d’Italia, dal titolo “Insediamenti di comunità Rom, Sinti e Caminanti”. Non è l’annuncio, come sminuiscono i giornali, di un nuovo censimento dei rom, bensì qualcosa di più importante. Il linguaggio è studiato, si fa riferimento al rispetto dei diritti della persona, agli “interessi pubblici primari sui quali si basa la civile convivenza”, alla protezione dell’infanzia. Si invitano tutte le prefetture a censire entro quindici giorni gli accampamenti abusivi – non gli abitanti –, a identificarne le criticità e le situazioni di pericolo, la presenza di minori e di stranieri senza documenti. Una volta raccolte queste informazioni si passerà alla fase successiva, sgomberi, demolizioni e ripristino della mitologica “legalità”. Come l’operazione di polizia a Primavalle inaugura la guerra alle occupazioni, questa circolare potrebbe essere il fischio d’inizio della guerra ai rom, con la proclamazione di una nuova “emergenza nomadi”. Ma come l’offensiva contro la lotta per la casa, la guerra ai rom non inizia certo con Salvini.
L’Associazione 21 luglio ha annunciato infatti in un nuovo comunicato ciò che aveva già sostenuto nel suo rapporto annuale 2018: che il governo sta preparando il terreno per una politica differenziale analoga a quella del governo Berlusconi, quando la presenza di dodicimila persone in cinque regioni fu equiparata a una “emergenza”, alla pari di un terremoto o di un’inondazione. Il ministro Maroni ottenne lo stanziamento di cento milioni di euro, la nomina di un commissario speciale e l’autorizzazione di deroghe alle leggi per censire i cosiddetti “nomadi” e metterli nei campi. Nel 2011 queste disposizioni e il loro finanziamento furono dichiarati illegittimi dal Consiglio di Stato, ma i governi successivi, sia nazionali che locali, continuarono a usare il “panico morale” per mantenere il sistema dei campi, e con essi la tensione continua che permette di far passare facilmente soldi dal pubblico al cosiddetto privato sociale. Carlo Stasolla, il presidente dell’Associazione 21 luglio, sostiene che in decenni di piani straordinari, l’unica misura davvero efficace è stata quella ordinaria, cioè l’edilizia pubblica. Il resto sono stati soldi buttati.
A Roma, il centrosinistra di Rutelli arrivò a spendere dodici milioni di euro l’anno in un enorme e inutile sistema di welfare differenziale, che partì da un censimento “dei rom” e su cui proliferarono le clientele svelate al pubblico nel 2014 con Mafia Capitale. I campi dovevano essere “gestiti dalle comunità”, con il tipico gergo dell’urbanistica partecipata; in realtà, il Comune identificò dei “rappresentanti locali”, spesso solo i più prepotenti delle loro comunità, che aiutò a creare cooperative alle quali distribuire finanziamenti, per poi usarli per mantenere l’ordine (lo racconta il rapporto “Lavoro sporco“). Dal canto suo Veltroni fece trasferire migliaia di persone fuori dal Raccordo Anulare, in insediamenti autorizzati che chiamò cinicamente “villaggi della solidarietà” e che affidò alle cooperative dell’orbita di Ozzimo, Odevaine, Buzzi. La catena di comando creata in quegli anni continua a funzionare, per convincere gli abitanti ad accettare i continui trasferimenti e a tollerare gli abusi, ma anche a tenerli lontano dal welfare di base a cui accede invece il resto della popolazione – le case popolari.
Questo trattamento differenziale rimane la base dei profitti per un’infinità di attori economici. Qualche anno fa, per esempio, il comune di Roma aveva deliberato di concedere per novantanove anni il terreno del “campo nomadi” della Barbuta alla Leroy-Merlin, che vi avrebbe aperto un nuovo grande magazzino. La multinazionale avrebbe dovuto sgomberarlo dai suoi abitanti e trasferirli in nuovi container a poca distanza. Un’associazione cattolica, presieduta dal padre dell’assessore alle politiche sociali del Comune, avrebbe gestito il nuovo campo con soldi pubblici; il faccendiere della Leroy-Merlin aveva già speso quattrocentomila euro per oliare il meccanismo. Questo piano, che aveva già il beneplacito del sindaco Marino, alla fine fu bloccato (si veda il rapporto Terminal Barbuta), ma molti altri sono invece andati in porto.
Paradossalmente, a Roma è stata una risoluzione del centrodestra a sbloccare le assegnazioni delle case ai rom. Nel bando del 2012 per l’edilizia sovvenzionata si attribuiva un premio speciale di diciotto punti a chi vivesse in luoghi assistiti dal Comune o da qualche associazione. Quando Alemanno si accorse che stava favorendo gli abitanti dei campi, la dirigente del dipartimento case emise una circolare per escluderne i rom, poi revocata dalla giunta successiva. Così, dopo un primo anno di diffidenza, molte famiglie riuscirono lentamente a uscire dai campi, facilitate anche dal fatto che le case popolari a Roma hanno tagli molto grandi, quindi si assegnano prima alle famiglie numerose. Stasolla spiega che in tre anni il campo di Salone è passato da mille e trecento abitanti a seicento, perché molti sono finalmente confluiti nelle case popolari. I rom nei campi a Roma erano quattromila e cinquecento nel 1996 e sono circa lo stesso numero anche oggi; vista l’alta natalità nei campi è possibile che molte centinaia di persone ne siano già in qualche modo uscite, con le loro forze, facendo valere semplicemente i loro diritti, alle spalle delle emergenze e delle politiche speciali.
La circolare di Salvini quindi interrompe un processo già in atto, che a lungo termine poteva debilitare il clientelismo della carità non richiesta, non tanto perché invoca sgomberi, ma perché reitera la necessità di agire su base differenziale. L’unico modo per superare queste discriminazioni, secondo Stasolla, è attaccarne la radice, cioè l’elemento etnico: eliminare la parola “rom” da tutto il discorso, sia quando viene usata per disprezzare e sgomberare, che quando si usa per invocare una “identità nomade” da rispettare attraverso politiche speciali. La condizione rom è effetto, non causa, del trattamento speciale; ma come ogni categoria etnica, non è che la cristallizzazione delle proiezioni del gruppo dominante; i subordinati vi si riconoscono, perché è l’unico modo per ottenere qualche diritto. Nel momento in cui smontiamo l’idea che esistano persone riconoscibili come “Rom, Sinti e Caminanti”, la nuova circolare svela ciò che davvero descrive: non i rom, ma gli insediamenti abusivi, che non sono certo abitati solo da rom. (stefano portelli)
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