Da Repubblica Napoli del 16 ottobre 2013
Giovedì 17 ottobre alle ore 16 nel centro Mammut, in piazza Giovanni Paolo II a Scampia, verrà presentata la ricerca “Segregare costa. La spesa per i ‘campi nomadi’ a Napoli, Roma e Milano”, uno studio effettuato da associazioni e centri di ricerca nell’ambito della campagna “I diritti non sono un costo” che ha l’obiettivo di approfondire l’impatto socio-economico della presenza dei cittadini stranieri e delle minoranze rom nel nostro paese.
Il rapporto analizza la spesa sostenuta dalle amministrazioni delle tre maggiori città italiane dal 2005 al 2011 per i campi rom e per le persone che vi abitano. Quel che il rapporto evidenzia riguardo a Napoli sono alcune caratteristiche note, prima fra tutte l’opzione istituzionale esclusiva per la soluzione abitativa del campo – o del centro di accoglienza – per i rom che vivono sul nostro territorio. Un modello basato su stereotipi e pregiudizi – il presunto nomadismo, la propensione alla devianza, l’inconciliabilità culturale dei rom – che di fatto relega alcune migliaia di persone in ghetti autorizzati ai margini della città e della società.
A Napoli esiste dal 2000 il campo comunale di Secondigliano, denominato “Villaggio della solidarietà”, situato alle spalle del carcere, in cui abitano circa settecento persone. Il campo è costituito da container con servizi igienici esterni, fornitura d’acqua, allaccio di gas ed elettricità. L’altra struttura comunale è il centro di accoglienza per rom rumeni a Soccavo, nei locali di quella che una volta era una scuola. Gli insediamenti spontanei e non regolamentati sono molto più numerosi e si trovano in genere in periferia: un centinaio di famiglie a Scampia, nei pressi dell’Asse Mediano, in roulotte o baracche con allacci abusivi alla condotta idrica e alla rete elettrica; a Poggioreale, nei pressi di una discarica abusiva, c’è un grande campo di rom rumeni, che prendono l’acqua dal cimitero antistante e l’energia da generatori autonomi. Insediamenti più piccoli si trovano a Ponticelli, sotto i piloni dell’autostrada, a Gianturco, a Barra, tutti in condizioni igienico-sanitarie estremamente precarie. I campi, anche quelli “autorizzati o attrezzati”, sono nati spesso da emergenze – incendi, sgomberi, rivolte della popolazione circostante – con un carattere temporaneo che poi è diventato permanente.
L’interesse della ricerca risiede però soprattutto nel mostrare in termini quantitativi – quindi di denaro stanziato e speso – come e quanto la soluzione unica del “campo” sia onerosa per i conti pubblici, a fronte di condizioni di vita che restano miserevoli e standard di inclusione sociale sempre molto bassi. Si tratta di milioni di euro spesi per affittare, bonificare, allestire, mantenere le aree nelle quali i campi rom vengono collocati; per l’erogazione di acqua, luce e gas; per il controllo tramite attività di vigilanza e di sorveglianza; per i servizi di scolarizzazione dei bambini, in gran parte consistenti nell’accompagnamento scolastico, vista la dislocazione dei campi in aree mal collegate dal trasporto pubblico; per gli interventi sociali rivolti alle famiglie rom presenti nei campi. Nel periodo considerato dalla ricerca (2005-2011), per esempio, se consideriamo la fornitura idrica e quella elettrica per il campo di Secondigliano, risulta che il comune ha speso dai trecento ai cinquecento euro al mese per ogni modulo abitativo. Per il servizio di accompagnamento a scuola più di cento euro per bambino. I servizi assistenziali sono orientati a rispondere esclusivamente ad emergenze, molte delle quali causate dalla stessa condizione di segregazione in cui vivono i rom. Tutti gli interventi inoltre mancano di una programmazione a medio e lungo termine e di un serio monitoraggio dei bisogni della popolazione.
La questione naturalmente non è di tagliare anche qui i fondi, ma di utilizzarli nel modo migliore. Questa “economia da ghetto”, che si è rafforzata negli anni, coinvolge infatti oltre ai rom e alle istituzioni locali anche le organizzazioni del terzo settore, le ditte di vigilanza private, i proprietari delle aree acquistate o prese in locazione nelle quali i campi vengono allestiti. Un sistema economico “separato” che assorbe la gran parte delle risorse destinate ai rom, e che potrebbero essere impiegate in modo più efficace per finanziare soluzioni abitative alternative e stabili, idonee a sottrarre i rom dall’esclusione assistita che il sistema dei campi produce e riproduce.
La ricerca di cui parliamo lascia intravedere dei timidi cambiamenti di rotta, non da noi purtroppo, dove i progetti sull’abitare dei rom, anche quelli già finanziati, risentono dell’inazione ormai cronica della giunta de Magistris. A Milano, invece, ma anche a Pisa, Padova, Bologna, la strategia del “superamento dei campi” – attraverso soluzioni diverse, dalle micro-aree all’auto-costruzione, fino all’inserimento in normali abitazioni – comincia a farsi strada anche nelle pratiche delle amministrazioni, che sembrano allontanarsi dall’impostazione emergenziale e securitaria, dispendiosa e inefficace, affiancando a quelli sull’abitare interventi su più livelli – lavoro, cittadinanza, scuola, salute – con l’obiettivo dell’effettivo inserimento sociale dei rom e della loro piena autonomia. (luca rossomando)
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