Sociologia urbana e rurale / n. 113
da: Sociologia urbana e rurale, n. 113 / luglio 2017
La urban ethnography rappresenta ormai un filone consolidato anche nella letteratura italiana. Fare scienze sociali dai margini, assumere come punto di vista quello delle periferie, parlare dai bordi della città è una maniera metodologica che Stefano Portelli assume pienamente nella sua recente monografia La città orizzontale. Etnografia di un quartiere ribelle di Barcellona.
Il testo racconta la storia di Bon Pastor, un quartiere periferico della città di Barcellona, dalla sua nascita, avvenuta grazie ai primi immigrati arrivati in Catalogna dal sud della penisola iberica, fino al suo epilogo, materializzato nelle demolizioni delle casas baratas come conseguenza della rigenerazione urbana dell’area. Un approccio che, rifacendosi a M. Small altro celebre etnografo urbano, si potrebbe facilmente definire “storicamente fondato”: grazie a due capitoli che ripercorrono la genesi e la formazione del quartiere si possono cogliere le dinamiche che hanno determinato la condizione del presente studiato sia per quanto riguarda Bon Pastor all’interno della città e del suo sistema periferico, sia rispetto alle traiettorie abitative dei residenti. Se il primo dei due capitoli storici è infatti relativo al racconto macro di come la questione urbanistica della zona si sia intrecciata con la Grande Storia, dalla Barcellona della Repubblica fino a quella delle Olimpiadi, il secondo capitolo è più centrato sulle storie personali delle famiglie sgomberate per far posto ai palazzi: grazie al ricorso alla tecnica delle storie di vita viene magistralmente ricostruita la traiettoria abitativa di chi è stato prima costretto alla segregazione e alla marginalità, poi alla stigmatizzazione e quindi a subire la riqualificazione e l’espulsione.
Il volume, edito da Napoli Monitor, è una traduzione e adattamento per il circuito italiano de La Ciutat Horizontal. Urbanisme i resistencia en un barri de cases barates de Barcelona frutto di una ricerca-azione condotta dall’antropologo Manuel Delgado, che ha visto antropologi, storici e architetti calcare i picchetti anti-sfratto, le assemblee dei vicini le fogatas del quartiere per costruire quella che l’autore stesso, citando Rappaport, definisce una collaborative ethnography. La ricerca infatti viene commissionata da un’associazione di abitanti storici del quartiere riunitisi nella Asociación de Vecinos “Avis del Barri” (letteralmente “I nonni del quartiere”) decisi ad avvalersi di un gruppo di specialisti degli studi urbani nella loro battaglia contro le demolizioni della “città orizzontale”. L’inchiesta si dispiega tra il 2007 e il 2013: sono gli anni in cui la trasformazione che ha interessato inizialmente solo il centro di Barcellona, e che ha rappresentato un esempio avanguardistico nel panorama europeo rispetto alla gentrificazione veicolata dai processi di brandizzazione della città, si è estesa anche alla corona semi-periferica e periferica (sul “Modello Barcellona” si veda tra i molti Amelang J. “Comparing cities. A Barcelona Model? in Urban History, v. 34, n. 2, 2007). Anche i quartieri operai, un tempo separati dal corpo urbano, adesso si trovano al centro dei meccanismi di rendita che non ammettono margini così bassi nel differenziale del valore d’uso: le case a un piano non sono ammissibili nella metropoli catalana. Così i tentativi di demolizione seguono la costruzione di un discorso pubblico stigmatizzante che anticipa le ruspe. Sono quelle «narrative legittimanti» che permettono la costruzione del problema sociale e quindi ne legittimano la soluzione che il governo urbano ha già determinato per la zona. In questo senso la minuziosa opera di indagine condotta dal gruppo di ricerca, non fa che mettere costantemente in discussione e contestualizzare le costruzioni stigmatizzanti messe in campo dagli attori determinati a concludere il processo di demolizione. Viene svelata la ratio mercantilista del dispositivo politico dell’urban: analizzando il discorso politico-istituzionale emerge la sua vocazione neoliberista (dai suoi ingranaggi ai vertici fino a quelli “territorializzati” delle associazioni dei vicini più o meno compromesse con il Plan de Remodelación). Così la ricerca affianca il processo di mobilitazione dei residenti storici del quartiere e costruisce una contronarrazione utile quantomeno a stabilire le coordinate analitiche del conflitto: gli abitanti, ben lontani da una volontà nostalgica di imbalsamare la loro quotidianità in moduli abitativi ormai datati, mettono in campo strumenti capaci di configurarsi come un’alternativa alla logica del mercato immobiliare. Propongono progetti di auto-recupero, bandiscono una chiamata internazionale cui risponderanno decine di studi di architetti e urbanisti, etc. ma ciò non basterà a fermare la distruzione del quartiere. Sebbene vani nel loro fine ultimo, questi strumenti avranno almeno il merito di aver messo a nudo la volontà politica dell’amministrazione cittadina di non intraprendere un percorso alternativo al destino scritto dalla proprietà e dalle forze del mercato.
Il testo proposto non è solo una interessantissima ricostruzione di un processo che, mascherato da riqualificazione, mira invece alla sottrazione di spazio urbano (e quindi di valore d’uso) a categorie specifiche della città. Non è nemmeno solo il racconto, da un punto di vista privilegiato, per analizzare i cambiamenti che investono le grandi città mediterranee, quello periferico dove il potere centrale si manifesta principalmente sotto forma di violenza urbana. È certamente tutto questo, ma è anche un invito al mondo scientifico per un ritorno sul campo, a quello che l’autore definisce un “antropologia orizzontale”. Un modo per riprendere il filo lasciato in sospeso dalla ricerca-intervento italiana degli anni Settanta così come dalle riflessioni di Bruno Latour o dalle esperienze di Charles Hale per rilanciare il tema dell’equilibrio «tra necessaria scientificità della ricerca e la non meno necessaria passione politica e vicinanza umana alle persone che ne sono coinvolte». (davide olori)