Gigino Schiaraiuorno è un operaio di cinquantacinque anni, nato nel vico delle Vammane, centro antico di Castellammare di Stabia. Le vammane erano quelle che un tempo facevano i parti in casa. L’anno in cui è andato in pensione è stato lo stesso in cui hanno varato l’ultima nave ai cantieri. Un giorno di tanti anni fa, suo nonno disse alla moglie che usciva un attimo per andare a comprare le sigarette, ma da quel giorno non fece mai più ritorno a casa. S’imbarcò per l’America, dicono. Questa è l’origine del suo soprannome.
«Io ho fatto fino alla quinta elementare. All’epoca per andare alle medie comportava spese, e allora i figli quando a dieci anni si erano pigliati la quinta elementare era come se si erano diplomati per i nostri genitori. Avevo un fratello più grande, che è morto, buonanima, poi ho due sorelle. Dopo le scuole elementari ho fatto tre anni di sguattero, salumiere, barbiere, meccanico. Ricordo i biscottifici che c’erano all’epoca, tu andavi là a mettere i biscotti nelle buste e guadagnavi cento duecento lire. Nel frattempo in quegli anni giocavo pure a pallone. Potevo intraprendere la carriera di calciatore ma non è stato possibile per questioni familiari. Mio fratello buonanima è arrivato fino alla serie C con la Juve Stabia. Poi ha giocato in serie D, e arrivato a un certo punto non volle giocare più a pallone. Allora mio padre ha avuto una delusione e non ha creduto in me. Così mi disse: “No tu devi andare a lavorare, ti devi imparare un mestiere”. Lui come lavoro faceva l’operatore ecologico. Mi ricordo che ero piccolino e si prendeva la spazzatura nei sacchi, se li metteva dietro alle spalle e se ne andava. Comunque papà mi mandò al centro addestramento professionale, così si chiamava, adesso al suo posto ci sta una scuola alberghiera. Il direttore di quella scuola lo conosceva. Sono andato là, e nei vari mestieri che s’imparavano c’era solo un posto di elettromeccanico. Io tenevo la quinta elementare, erano tre anni che stavo in mezzo alla strada, le scuole me le ero scordate. Non sapevo che si doveva andare dalle otto di mattina fino alle due e si facevano tre ore di teoria e tre ore di pratica. Quindi mettiti di nuovo a cacciare tutti i libri fuori… Comunque riuscii a prendermi questa qualifica come elettromeccanico, ma avrei potuto imparare a fare il tubista, il saldatore, perché in quella scuola c’erano tutti i mestieri… tornitore, fresatore, era proprio immensa come struttura. E parecchi di noi che poi siamo passati a lavorare ai cantieri siamo tutti usciti dal centro addestramento. A sedici anni, come uscii andai a lavorare con una ditta, che a sua volta aveva un’officina a Scanzano, adesso al suo posto ci sta l’ufficio postale. Là ci facevano gli avvolgimenti motori, proprio il mestiere mio. I primi dieci quindici giorni stavo in officina, ho fatto un paio di motori però mi sentivo troppo legato, volevo evadere, e litigavo sempre con il fratello del padrone. Una mattina venne proprio il padrone e disse: “Va bene, allora tu vattene a lavorare al cantiere”. E me ne andai a lavorare in cantiere, sempre con la ditta.
«Ho fatto dal ‘73 fino al ‘76 con la ditta e poi fui assunto il 28 aprile del 1976. Il 9 novembre sempre del ‘76 dovetti partire per il servizio militare. Il 30 aprile del ‘78 mi sono congedato e il 2 maggio sono andato a lavorare in cantiere, e da allora sono rimasto qui, tranne le trasferte che ho fatto a Monfalcone, dove sono stato parecchi anni e facevo il pendolare una settimana sì e una no. Poi mi sono sposato nel ’79, tenevo ventitré anni. Mia moglie ne aveva quasi diciotto, era incinta di quattro mesi. Infatti quando mi sono sposato ho dovuto fare delle carte perché era minorenne. Ho due figli sposati, il primo ha due figli. Pure s’è sposato ragazzo mio figlio, e pure lavora ai cantieri. Adesso sta in cassa integrazione.
«Sono entrato in Italcantieri e sono subito andato a lavorare nel reparto elettrico, perché facendo due anni con la ditta oramai mi conoscevano. Ho fatto dal ‘76 fino all’82 in quel reparto. Già all’epoca come nocività… per noi che abbiamo lavorato in quelle condizioni adesso a confronto sono fiori e rose. Allora io non sopportavo più di lavorare a bordo. Specialmente quando lavoravo giù in sala macchina, e pure sopra ai ponti. All’epoca eravamo centottanta persone, ma il reparto dei saldatori e dei carpentieri era più numeroso. La nave è tutta in ferro, quindi carpenteria e poi saldatura. Io facevo passaggio cavi, montaggio luci, collegamenti, era un bel lavoro, almeno quando stavi su, quando la nave già era scheletrita. Ma quando stavi giù in sala macchina, lì è tutto chiuso. Allora andai a dire al capo reparto: “Non voglio stare più negli elettricisti me ne voglio andare. Mettimi ovunque tranne che a bordo, poi faccio tutto”. Dopo qualche giorno venne il caporeparto e mi disse: “Senti Giggì ci sta un posto in prefabbricazione B”. Che sarebbe dove la nave viene montata, dove nasce. Dopo che è passata dalla navale, passa in prefabbricazione e viene montata tutta la nave a pezzi, che poi vengono le gru e si mettono sullo scalo mano mano. Là iniziai la carriera di carpentiere in ferro: un altro mondo. Però là il pericolo era circoscritto perché lavoravi sul blocco, e mano mano montavi le lastre, poi sopra ci andava il montaggio dei vari pezzi che formano la parte di nave che noi chiamiamo blocchi o sezioni. E ci ho messo sei mesi a imparare. La Italcantieri ci mandò a fare un corso al centro addestramento. Facemmo questo corso come saldocarpentieri e dopo ho continuato a lavorare in prefabbricazione e l’ho fatto dall’83 fino al duemila. Vieni ti faccio vedere dov’è…».
Ci affacciamo al balcone, il cantiere è sulla nostra sinistra. Piccole imbarcazioni in rada. Qualche pescatore è appoggiato sul muretto con la canna da pesca in mano e una busta di bigattini.
«Pensa che a noi elettricisti ci chiamavano le signorine di bordo perché tenevamo sempre la tuta pulita. Non facevamo lavori sporchi quando eravamo a bordo. Tu non hai idea di che significa un tornichetto. È un aggeggio come quei cosi che stanno fuori al balcone che si mettono i fili per spandere i panni. Immagina che ogni cosa di quelle pesava due chili, poi c’erano affari pesanti (si alza dalla sedia, mima il funzionamento di questi attrezzi). In prefabbricazione il lavoro era più massacrante, già nel portare gli attrezzi da lavoro. Mentre invece a bordo avevi il cacciavite, la pinza, il tronchesino. Che poi pure negli elettricisti viene una fase di lavorazione che è faticosa: il passaggio cavi. Cavi di grosse dimensioni che partono dal ponte di comando e arrivano alla sala macchine, a prua, dove stanno le eliche di manovra. Là è tutto cavo grosso di portata, che deve alimentare le eliche trasversali delle navi. L’hai mai vista un’elica? È enorme, è un pezzo fuso di bronzo. Quello arrivava dalle fonderie. Stampi grossi che facevano all’Ilva di Taranto…
«Quindi il passaggio da elettricista a bordo alla prefabbricazione diciamo che è stato buono per la salute. Parecchi amici miei che hanno continuato a lavorare a bordo negli elettricisti, qualcuno già è morto per l’amianto. Invece giù in prefabbricazione lavoravi su un blocco, era tutto ferro. La nocività ce l’avevi solo quando andava il molatore a molare però tu non ci stavi vicino. Nel reparto di fabbricazione era più faticoso ma era meno insalubre. Per venti anni ho fatto i doppifondi, perché in prefabbricazione si comincia a fare il doppiofondo e poi mano mano si sale e si fanno tutte le strutture, dal basso verso l’alto. Nei doppifondi delle navi di carico alla rinfusa esistono delle gallerie laterali alte due metri e venti, allora la struttura è grossa, e ti potevi muovere liberamente. Invece sulle navi più piccole il doppiofondo diminuisce, lavori inginocchiato. C’è stato un periodo che usavo le ginocchiere perché stavo sempre con le ginocchia per terra, quando per esempio andavo a lavorare dentro ai doppifondi di un metro e venti.
«Mi ricordo che parecchi anni fa venivano dei coreani in cantiere, degli affari così piccoli con gli occhialini, e guardavano noi come lavoravamo, che poi a distanza di anni ce li siamo trovati che dobbiamo fare la lotta a loro per sopravvivere. Ai coreani… Dopo un po’ di tempo nell’ambiente della saldatura cambiarono certe cose. Per dire, quando tu fai la nave, al montaggio prima di arrivare al blocco grande devi fare tutti i pezzi di piccole dimensioni. Questa roba qua si fa per terra e si chiama preliminare. Si vanno a montare dei pezzi di rinforzo delle pareti che devono essere montate. Si saldano delle trasversali di ferro grandi che ti aiutano a tenere il pezzo rigido. E quello si faceva a terra, non a bordo, e ci volevano tre quattro saldatori con la bacchetta e l’elettrodo. Sono venuti i coreani, e dopo un po’ di tempo sono arrivate delle macchinette in cantiere, si chiamavano “gravide”, che poi adesso sono state tolte, è diventato pure quello preistoria. Era una macchinetta che si appoggiava per terra (si alza e mima il suo funzionamento), aveva un affare così lungo, vicino una cosa che scivolava, e qua dentro ci mettevano delle bacchette di elettrodi lunghe cosi, vedi? Tu mettevi la bacchetta dentro, l’appoggiavi al punto da saldare, quello aveva l’interruttore, tu accendevi e mano mano quello saldava e questo scendeva. Quegli affari là (ride) li hanno inventati i giapponesi. Che poi chi li chiamava giapponesi, chi li chiamava coreani… A quel punto l’operaio doveva solo mettere la bacchetta dentro e spostare la macchinetta. Era più comodo, mentre quella saldava al posto tuo tu ti fumavi la sigaretta… E così a partire da queste cose è cominciato il progresso, che poi è stato regresso. Con l’evolversi del tempo sono uscite un sacco di tecnologie che hanno portato a diminuire la manodopera. Un operaio manovrava due tre macchinette e una macchinetta faceva la fatica di tre operai. Per fare una nave intera, quando non c’erano le tecnologie, per esempio le ferry cruises che erano un poco complicate, per quelle ci voleva un anno di tempo, dall’impostazione alla consegna…
«Negli scioperi sempre in prima fila! Eravamo politicizzati, c’era il mondo operaio. Ricordo una volta andammo alla sede centrale a Trieste nel ‘94. Un’invasione. Quell’epoca là facemmo un treno speciale, non tenevamo più commesse. Io già stavo a Monfalcone, ne eravamo circa duecento tutti di Castellammare, in trasferta tra Monfalcone e Marghera. Sapendo che dovevano venire gli altri per lo sciopero andammo tutti assieme a Trieste e ci ritrovammo là fuori. Alla fine ce ne scendemmo a Castellammare con due commesse, le navi ce le andammo a prendere direttamente noi a Trieste (ride). Dopo quel brutto periodo ci riprendemmo e costruimmo parecchie navi. Tengo ancora il tappo conservato dello champagne che aprimmo quando ci annunciarono il carico di lavoro della Tirrenia. Facemmo le finlandesi, le Grimaldi, poi sono andato in pensione nel 2009, quando non ci stava niente più.
«Io sotto al reparto tenevo la radio con due belle casse enormi per sentire la musica. E mi ricordo l’ingegner Maione, il direttore, che quando veniva là sotto si rallegrava. Le prime volte mi diceva: “Giggì ma che stai facendo?”. Io gli dicevo: “Ingegnè la musica fa bene, fa lavorare meglio!”. La mattina non appena andavo a lavorare scappavo sotto al reparto e facevo il caffè a quaranta cinquanta di loro con la macchinetta grossa. Aspettavano tutti quanti a me… Mi manca proprio tanto il cantiere, Andrè. Ma assai. Quello che mi manca di più è la doccia, che la sera quando andavi via era la cosa più bella. Le docce avevano un getto forte che regolavi come volevi tu, e io lo mettevo sempre come idromassaggio. Poi c’era la mensa, il momento quando ci ritrovavamo tutti quanti a mezzogiorno, ne eravamo un migliaio e si mangiava, si scherzava… Ci vogliamo affacciare un po’ fuori al balcone? A quest’ora c’è il maestrale, si vede bene tutto l’arenile fino a marina di Stabia. Poi dopo ti faccio vedere le vecchie fotografie…». (andrea bottalico)
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