Memoria pubblica e memorie private, storia ufficiale e storie sommerse, archivi istituzionali e archivi familiari sono i materiali di partenza che Alessandra Ferrini ha usato per comporre la sua ultima mostra personale, Unsettling Genealogies, allestita al Museo del Novecento di Firenze. Di questa stessa materia prima è fatta la sua ricerca decennale, impegnata a interrogare la natura dello sguardo che ha formato l’“italianità” e la sua bianchezza – una natura coloniale che ancora oggi, nelle sue innumerevoli declinazioni, caratterizza i discorsi, le rappresentazioni e le politiche istituzionali. Tra le mani dell’artista, foto, monumenti, documenti testuali e audio-visivi, racconti orali sono una materia grezza che, una volta lavorata, può assumere connotati inediti e talvolta, come suggerisce il titolo di questa mostra, inquietanti. Unsettling Genealogies può essere considerata la nuova tappa di un percorso critico e autoriflessivo che scava tra gli archivi per ragionare sugli effetti materiali e simbolici di due processi contemporanei e complementari: la fascistizzazione della cultura italiana e l’assoggettamento dei popoli colonizzati durante il ventennio governato da Mussolini. Due processi che videro la partecipazione attiva e convinta di numerose personalità dell’imprenditoria e del commercio, ma anche della cultura e dell’arte, oltre che della politica. La mostra prosegue sulla scia delle ricerche precedenti e porta avanti una rigorosa opera di disseppellimento e smascheramento. A essere riesumate, in questo caso, sono alcune fonti istituzionali risalenti agli anni Trenta del Novecento: documenti che raramente il mondo dell’arte contemporanea ha guardato con occhio critico, ma che contribuiscono a svelare le strategie discorsive e i regimi di rappresentazione che legittimarono l’Italia “gloriosa”, moderna, civile e tecnologicamente avanzata a imporre oltremare il proprio modello di sviluppo e progresso. A essere smascherata è la falsità di questa narrazione, il suo carattere illusorio, il suo intento manipolatore; in altri termini, la presunta veridicità delle fonti ufficiali. Nel percorso proposto dalla mostra, questo svelamento avviene per mezzo delle fonti private utilizzate: un archivio di foto e racconti che l’artista ha ereditato dai parenti, arricchito dalla sua stessa esperienza di “giovane squattrinata”, emigrata a Londra quando era appena maggiorenne.
Entrando nello spazio espositivo, questo complesso di riflessioni emerge per gradi, man mano che il nostro sguardo si muove nello spazio e dal generale scende nel particolare. Un corridoio nero ci conduce alla prima stanza, dove l’artista ha allestito un salotto domestico. Pochi elementi di arredo ricordano gli interni in stile Déco: un tavolino e due sedie, un arazzo e un tappeto, ritratti di donna appesi alle pareti, due palme in vaso, una statuetta bronzea. A questi si aggiungono pochi oggetti che possiamo toccare e consultare (una didascalia affissa all’ingresso ci invita a farlo): quattro libri disposti sul tavolo e tre saggi stampati su fogli A4, poggiati su piccole mensole che fanno da leggio. Chi ha in mente i riferimenti estetici dell’alta borghesia italiana degli anni Trenta può cogliere subito la dimensione evocativa e al contempo eversiva di questa sala. Le palme collocate agli angoli della stanza riproducono il gusto per l’esotico che caratterizzò il ventennio fascista, quando decine di specie vegetali venivano importate dalle colonie africane per ornare gli spazi istituzionali, le strade, i parchi, le esposizioni promosse dal regime. L’arazzo e il tappeto riprendono alcuni motivi comuni a molte scene pittoriche di battaglia realizzate durante le imprese coloniali: guerrieri a cavallo e imbarcazioni a vela. Questi soggetti vengono rimodulati e ripetuti fino a creare dei pattern quasi astratti. Il carattere eversivo emerge quando notiamo che i protagonisti di queste scene, anziché gli “eroi” italiani, sono coloro che hanno resistito alla violenza dell’occupazione coloniale; ed emerge mentre sfogliamo i testi che l’artista ha messo a nostra disposizione: una biografia dell’imprenditore e politico veneziano Giuseppe Volpi; uno studio storico dedicato ai filmati coloniali prodotti dall’Istituto Luce durante il ventennio fascista; un volume dedicato alla Biennale di Venezia negli anni in cui il Segretario generale dell’istituzione era l’artista Antonio Maraini, e un altro ancora incentrato sui rapporti tra fascismo e futurismo. Se questi titoli danno indicazioni più precise sulla cornice cronologica e ideologica osservata dall’artista, ulteriori rimandi li troviamo nei ritratti femminili, uno dei quali porta la firma leggibile di Maraini. Eppure, l’identità di questa donna, ritratta anche in una foto stampata su grande formato, rimane ignota. Così come rimangono nascoste le connessioni tra questa figura e il resto degli elementi che animano il salotto.
Questo puzzle di frammenti visivi e testuali può essere ricomposto quando entriamo nella seconda sala. Qui diventa chiaro che al centro della critica ci sono le istituzioni culturali italiane e il loro ruolo nel plasmare l’immaginario collettivo di un paese che – decenni dopo la sua unificazione – necessitava ancora di farsi nazione. E altrettanto evidente diventa la convergenza di interessi tra Stato ed enti privati nell’utilizzare l’arte e gli eventi artistici come mezzi ideali della propaganda. Nella parete di fronte all’ingresso c’è la riproduzione di uno scatto eseguito durante l’inaugurazione della Mostra d’Arte Cinematografica del 1935, i cui protagonisti, insieme a Volpi, sono alcuni funzionari del governo, immersi in una scenografia che ricalca gli stilemi delle expo universali e coloniali. A fare da sfondo ai loro corpi in divisa sono dei banner verticali dal gusto orientalista ed esotico: la matrice estetica che ha ispirato la ricostruzione della prima sala. Su un’altra parete, un collage sovrappone immagini del repertorio coloniale. La cartolina in primo piano ci informa che il soggetto ritratto è il Lungomare Conte Volpi di Tripoli, su cui l’artista ha disegnato la sagoma di un cavaliere simbolo della resistenza libica – la stessa forma che abbiamo visto nell’arazzo dell’altra stanza. Su una terza parete, poi, è affissa una riproduzione del manifesto che annunciava la prima edizione della Mostra d’arte cinematografica, inaugurata nel 1932 come sezione cruciale della Biennale di Venezia. A confermare la centralità del cinema come dispositivo disciplinante è l’ultima parete, interamente impegnata dalla foto in bianco e nero di un ambiente modernista connotato da una scritta: “Il cinema è oggi l’arma più forte. B. Mussolini”. Al centro di questa immagine l’artista ha incorniciato il suo video-saggio. Ed è soffermandoci sulla sua visione che il puzzle si completa. Guardandolo scopriremo, per esempio, che la foto usata come sfondo ritrae il vestibolo del Centro sperimentale di cinematografia di Roma, altro ente di produzione culturale che, istituito nel 1935 per volere di Mussolini, nacque con l’intento esplicito di indottrinare la popolazione.
Il film di Ferrini usa due registri linguistici e formali che, nel loro susseguirsi e intrecciarsi continuo, entrano in conflitto. Da una parte troviamo una ricostruzione storica che evidenzia il ruolo delle istituzioni nell’alimentare i discorsi e i propositi del regime. In questi momenti l’artista parla in italiano – la lingua delle istituzioni a cui la sua critica è rivolta – e le sue fonti sono quotidiani dell’epoca, filmati dell’archivio Luce, immagini veicolate dagli organi di governo. Frammento dopo frammento, apprendiamo la relazione che lega le figure di Volpi e Maraini all’ideologia fascista e alle sue politiche culturali. Il primo riuscì a sfruttare il suo ruolo di imprenditore (presidente della Società adriatica dell’elettricità, vicepresidente delle Officine Galileo di Firenze e azionista della Compagnia italiana grandi alberghi) per ottenere importanti incarichi politici. Nel corso della visione, Ferrini ci ricorda che Volpi partecipò alla guerra libica voluta dal governo liberale e che, all’alba del ventennio fascista, dal 1921 al 1925, fu nominato governatore della Tripolitania. La sua partecipazione alla “missione civilizzatrice” in colonia gli procurò il titolo di Conte di Misurata, città portuale della costa libica a sud di Tripoli.
Poprio nella capitale, Volpi fu autore del piano regolatore che disegnò l’assetto urbanistico del Lungomare che prese il suo nome. Tornato in patria, come fedelissimo di Mussolini, assunse l’incarico di ministro delle finanze (1925-28) e nel 1930 divenne presidente della Biennale. Nel contesto della manifestazione veneziana si fece promotore, insieme a Maraini e a Luciano De Feo (critico cinematografico e direttore de L’Unione cinematografia educativa – Luce), della Mostra internazionale d’arte cinematografica, inaugurata presso l’Hotel Excelsior, di sua proprietà. Poco dopo venne nominato presidente di Confindustria (1934-43). Nel 1935 la Mostra del cinema della Biennale istituì un premio, la Coppa Volpi, destinato al migliore attore e alla migliore attrice di ogni edizione. Nel corso della sua critica, Ferrini ci invita a riflettere sulla permanenza di questo nome ancora in uso e sulla sua mancata problematizzazione nell’arco degli ultimi ottant’anni.
Intorno alla figura di Antonio Maraini, poi, si svela il legame tra memoria pubblica e vicenda familiare. L’artista romano, trasferitosi a Firenze negli anni Dieci, passerà alla storia come il “responsabile della svolta più reazionaria dell’arte”. In qualità di Segretario generale, in particolare dal 1936 in poi, insieme a Volpi e altri, favorì il processo di fascistizzazione della Biennale. Alla stregua delle mostre fasciste e coloniali che Mussolini ordinava e finanziava in quegli anni – significative soprattutto in relazione alla proclamazione dell’Impero d’Etiopia – anche la Biennale veniva usata non solo come la vetrina internazionale attraverso cui l’Italia stabiliva la linea estetica e la griglia ideologica di riferimento, ma anche come il palcoscenico ideale delle alleanze politiche ed economiche con le altre potenze occidentali.
Nel corso delle sue ricerche tra gli archivi ufficiali, Ferrini realizza che la sua storia familiare è fortemente connessa a quella di questi personaggi: i suoi antenati, di origine contadina, avevano lavorato a lungo al servizio della famiglia Maraini come governanti, autisti, camerieri. A intervallare la ricostruzione storica appena descritta sono allora le sequenze in cui l’artista si rivolge ai suoi parenti, mentre guarda le loro foto sotto una nuova lente, quella del rapporto tra padroni e servi, tra chi agiva il potere e chi provava a contestarlo come poteva. Scopriamo così che la donna ritratta nella prima sala è la nonna dell’artista, più volte immortalata tra la vegetazione e le statue che ornavano Villa Maraini. Scopriamo poi che la nonna e la zia si erano opposte agli abusi che alcuni uomini avevano provato ad agire sui loro corpi giovani e subalterni. In questi segmenti l’artista parla in inglese, la sua seconda lingua madre, oggi la più adeguata a tradurre il suo sentire più intimo e privato. Nella sua lettera immaginaria ai parenti defunti, nel susseguirsi di ricordi indiretti che svelano la loro coscienza di classe, l’artista si chiede cosa poteva significare trovarsi alle dipendenze dirette dei propri oppressori e nemici politici.
A sollecitare queste domande è anche la figura dello zio: figlio di una famiglia di anarchici, partecipò alla resistenza antifascista, ma quando con la caduta del fascismo la complicità con il regime venne messa sotto accusa, egli scelse di testimoniare in favore di Maraini affinché fosse scagionato. Di fronte a questo paradosso – testimone delle “controversie della Liberazione dal fascismo” – l’artista sospende il giudizio. La sua riflessione su questa eredità conflittuale, che la riguarda come persona e come artista, suggerisce però un ragionamento più ampio sulle diverse forme di violenza classista, razzista e sessista che ancora oggi vengono agite impunemente. E in maniera più sotterranea e indiretta, apre un’ulteriore riflessione sulla complicità e indulgenza che ciascuno di noi, come cittadini, produttori o lavoratori dell’Italia di oggi, offre al potere dominante in maniera più o meno disinvolta, diretta e consapevole. Dal punto di vista formale, questo invito a interrogarci sulle nostre responsabilità etiche e politiche emerge nella concezione dello spazio espositivo come una parte attiva della critica in corso: molte scene del video sono state effettuate dentro l’ambiente allestito della mostra. Così, lo spazio della rappresentazione coincide con quello della fruizione e con quello dell’autoriflessione: non sono rari i momenti in cui l’artista compare nel video con il proprio corpo.
Unsettling Genealogies, allora, nel suo complesso di movimenti e rimandi spaziali, temporali e concettuali, si rivolge innanzitutto alle istituzioni culturali che ancora oggi si rifiutano di rielaborare criticamente un passato inquietante e problematico come quello fascista e coloniale; ma in maniera più sottile, sembra rivolgersi anche al pubblico di queste istituzioni e a chi, come l’autrice stessa, le attraversa con l’intento di disturbare la loro natura autoritaria e autoassolutoria. È il tentativo che Ferrini sta sperimentando con la sua attuale partecipazione alla Mostra internazionale d’arte della Biennale di Venezia. (alessandra ferlito)
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