Mentre gli italiani contano i giorni che li separano dalle prime riaperture di servizi, negozi e attività, in altri luoghi d’Europa il Coronavirus ha innescato fin dall’inizio risposte e traiettorie alternative che non hanno contemplato la reclusione in casa per legge. I paesi scandinavi sono tra questi. I governi di Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia e Islanda hanno implementato misure di contenimento del virus anche molto diverse tra loro ma senza ricorrere all’imposizione della clausura generalizzata. La Svezia è stata raccontata spesso nei media italiani – in maniera perlopiù superficiale e strumentale – come caso limite di irresponsabilità governativa, in confronto a un supposto modello “eroico” di lockdown italiano. La vicina Danimarca ha ricevuto meno attenzione dalle nostre parti, nonostante sia stato il primo paese in Europa dopo l’Italia a far scattare misure di distanziamento sociale, e uno dei primi ad avviarsi verso la riapertura delle scuole primarie (dal 15 aprile). Questi due paesi, simili eppure distanti nella gestione della pandemia, forniscono elementi concreti per riflettere su approcci diversi dall’Italia e, cautamente, sulle prospettive future di una situazione in divenire.
In Danimarca, a partire dal 13 marzo sono state chiuse le scuole di tutti gli ordini e gradi (dagli asili alle università), le biblioteche e le istituzioni culturali. Ai dipendenti pubblici dei settori non essenziali è stato ordinato di lavorare da casa, mentre al settore privato veniva richiesto di adoperare, ove possibile, il telelavoro da remoto per tutti gli impiegati. Le produzioni e l’agricoltura non si sono fermate, tranne le attività che hanno deciso autonomamente chiusure temporanee. Il 18 marzo un’ulteriore stretta ha reso i raggruppamenti di più di dieci persone illegali, ordinando al contempo la chiusura di tutti i centri commerciali e degli esercizi più suscettibili di contatti ravvicinati, come parrucchieri e discoteche. Nel lockdown alla danese i ristoranti possono servire solo da asporto e tutte le attività economiche aperte devono assicurare il distanziamento tra i clienti. Si può stare fuori, camminare per le strade e nelle riserve naturali, portare i figli al parco giochi, rifugiarsi al mare. Basta rinunciare alle attività di gruppo e seguire le direttive. Pochi i controlli individuali; avendo chiuso quasi tutto le strade sono semideserte, ma abbondano runner, ciclisti, passeggiatori e famiglie al parco.
IN DANIMARCA
In termini di statistiche, al 19 aprile la Danimarca conta poco più di settemila contagiati su novantamila test effettuati, settantasei persone in terapia intensiva e trecentoquarantasei morti di Covid-19. Test su larga scala e a campione stanno per partire, ma i numeri contenuti e la relativa diminuzione della curva dei contagi nelle ultime due settimane hanno convinto il governo a sperimentare graduali riaperture. Il numero totale di unità di terapia intensiva dotate di respiratori artificiali in Danimarca è poco più di milleduecento. Secondo i modelli adoperati dal governo, tale capacità è compatibile con un aumento repentino di casi severi dovuti alla graduale riapertura e dovrebbe bastare per occuparsi di tutti coloro che necessiteranno di respirazione assistita nei prossimi mesi, anche grazie alla messa in stand-by di quasi tutte le operazioni chirurgiche e degli screening “non essenziali”.
E così, dal 15 aprile, circa il quaranta per cento delle scuole primarie ha riaperto in tutto il paese, quelle che sono riuscite a preparare i propri spazi e a coordinarsi con le famiglie per tempo. Le altre seguiranno. Solo i bambini e gli educatori che non presentano sintomi influenzali sono ammessi, in un ambiente radicalmente trasformato che contempla nuove abitudini per mitigare i contagi. Dalle classi ridotte e frammentate, al lavarsi le mani ogni ora, ai banchi distanziati un metro e mezzo, fino alla ricreazione in piccoli gruppi e alle entrate scaglionate, le comunità scolastiche sperimentano assetti che dovrebbero limitare gli inevitabili contatti tra bambini. È una terra incognita, in cui le numerose e a volte contradditorie linee guida governative vengono tradotte nella quotidianità attraverso la sperimentazione e l’improvvisazione, caricando gli educatori della responsabilità di disciplinare al distanziamento sociale ragazzini spaesati, magari felici di rivedere gli amichetti ma senza poterli riabbracciare. Ulteriori risorse per assunzioni di insegnanti e moltiplicazione delle aule stanno per essere elargite. Per ora non è stato necessario assicurare la piena capacità: solo il cinquanta per cento dei genitori al momento ha deciso di rimandare i figli a scuola. Gli altri sono poco convinti che il paese sia già oltre l’emergenza. Occorrerà attendere tra le due e le tre settimane per valutare la portata del cambio di passo su contagi e ricoveri.
È interessante notare che l’impulso alla riapertura delle scuole primarie non si è basato su argomenti legati alla salute psicofisica dei bambini. Dopo tutto, ai piccoli non è mai stata imposta la clausura, evitandogli la sofferenza di anelare il sole primaverile dalle finestre. La spinta verso tale decisione si basa su due ordini di ragioni, economiche e epidemiologiche. A detta della prima ministra danese, i bambini piccoli privati degli spazi educativi esterni alle famiglie impongono un giogo gravoso ai genitori che lavorano. Far ripartire il paese significa anche liberare tempo per i lavoratori, pure quelli autoconfinati. Inoltre, secondo gli esperti locali, i bambini sono i meno vulnerabili al Coronavirus, essendo spesso asintomatici se contagiati, quindi corrono meno rischi. Proprio per questo, però, sono più suscettibili di diffondere inconsapevolmente il virus. A ciò si cercherà di sopperire aumentando portata e frequenza dei test a tampone e sierologici, e mettendo in quarantena i positivi. Per ora, il governo sembra intenzionato a procedere ulteriormente con le riaperture: dalla prossima settimana torneranno ad accogliere dentisti, fisioterapisti, parrucchieri, saloni per tatuaggi, scuole guida, laboratori di ricerca e tribunali. Nessun obbligo di mascherine ma fiumi di regole su spazi e interazioni negli esercizi, e la spada di Damocle di una ri-chiusura istantanea dovessero aumentare i contagi oltre la soglia di guardia.
IN SVEZIA
In Svezia, al 19 aprile, ci sono poco meno di quattordicimila casi confermati, di cui cinquecento in terapia intensiva e quasi milleseicento morti, con la regione di Stoccolma la più colpita, in particolare case di riposo per anziani e quartieri di comunità immigrate. Qui non è stato dichiarato un lockdown ma sono state diffuse raccomandazioni sanitarie a cura dell’Agenzia per la salute pubblica e approvate poche norme specifiche. Da tale agenzia il governo dipende per le scelte in materia di sanità, come da costituzione e tradizione svedese, per le quali le agenzie pubbliche sono indipendenti dall’esecutivo e a loro spetta l’ultima parola nelle rispettive aree di competenza. Le norme vietano gruppi oltre le cinquanta persone e le visite alle case di riposo per anziani. Le università e le scuole superiori sono state chiuse e continuano online, mentre asili e scuole elementari restano aperti. Il comparto produttivo – manifatturiero, estrattivo e industriale – non si è mai fermato, tranne alcune industrie specifiche (come la Volvo e la Scania) che hanno chiuso temporaneamente per scelta. Negozi, ristoranti e bar accolgono ancora avventori ma con alcune limitazioni. Incontri sportivi solo a porte chiuse, e fiere, concerti e grandi eventi cancellati o rimandati. Per il resto, una lunga lista di raccomandazioni ai cittadini per il rallentamento dei contagi, che però non hanno valore di norma coercitiva. Sono, appunto, consigli e inviti da parte delle autorità, e ricalcano le condotte individuali caldeggiate dall’OMS. Oltre all’igiene personale e al distanziamento sociale, si chiede alla popolazione di autoisolarsi in caso di sintomi anche lievi, di evitare viaggi non necessari e di lavorare da casa. In relazione all’approccio italiano, balza agli occhi l’enfasi svedese sulle categorie a rischio, cioè anziani e malati: è a loro che lo stato chiede il sacrificio maggiore, riducendo all’estremo i contatti con le famiglie e mantenendo l’isolamento. Differenti gradi di responsabilizzazione sono quindi ripartiti sulla base della relativa pericolosità del virus per categorie diverse di persone. Si lascia che bambini e adulti continuino con la loro vita, pur con maggiori cautele, mentre i più sensibili e a rischio praticano, o dovrebbero praticare, una separazione radicale.
Nel weekend di Pasqua, pur se i viaggi di svago interni al paese si sono ridotti fino al novanta per cento, hanno fatto scalpore le scene di caffè e lungomare affollati a Stoccolma. È acclarato che il modello generale punta a lasciar viaggiare il virus nel corpo sociale più velocemente che altrove. L’assunto è che un lockdown prolungato e sfribrante sarebbe più deleterio per l’economia e la società dei vantaggi potenziali in termini di gestione della pandemia. Un ragionamento diverso ma con presupposti simili rispetto agli altri paesi: come sappiamo, le forme applicate di quarantena generalizzata e coprifuoco severo non puntano a “sconfiggere” il virus o azzerare i contagi fino alla scoperta di un vaccino adeguato. Lo scopo è rallentarne la diffusione per evitare il collasso dei sistemi sanitari sotto la pressione di flussi esponenziali di casi gravi di Covid-19. È lo scontro tra alcune caratteristiche del virus – soprattutto rapidità dei contagi e severità del decorso in individui particolarmente suscettibili – con l’insufficienza di posti letto, terapie intensive, materiale di protezione sanitario, respiratori e ventilatori polmonari, insomma con sistemi sanitari smantellati da austerity e “razionalizzazioni” della spesa pubblica, a renderlo una grave minaccia sociale. Se ci fosse stata abbastanza capacità per sostenere lo tsunami di casi prodotto dalla diffusione incontrollata del virus, i paesi probabilmente non avrebbero avuto la necessità di implementare lockdown severi.
Tuttavia, la Svezia non ha tutta questa capacità. Alla fine del 2019, la disponibilità di posti di terapia intensiva era tra le più basse d’Europa, con 5,8 ICU per centomila persone (cinquecentoventisei in totale, l’Italia ne aveva 12,5 per centomila abitanti, poco più di cinquemila in totale). Si può quindi parlare di sottovalutazione? Il 6 febbraio Johan Carlson, direttore dell’Autorità di salute pubblica, aveva affermato che “il corona non si diffonderà nella società svedese”. I numeri attuali sembrano dargli torto. Con l’aumentare dei contagi, è iniziata la corsa all’espansione delle capacitá di trattamento per i casi gravi. Grazie agli ospedali da campo appositamente costruiti le terapie intensive sono arrivate a millequaranta, e circa l’ottanta per cento è già occupata. Eppure, si scommette sul fatto che il sistema non collasserà. Soprattutto, la valutazione a fondamento della strategia di lasciar diffondere il virus adottando solo tenui misure è che la sfida si gioca sul medio/lungo termine. Lo scopo dichiarato è raggiungere in tempi relativamente brevi un’immunità generalizzata della popolazione così da velocizzare il decorso inarrestabile dell’epidemia e lasciarsela alle spalle.
Gli effetti di questo approccio non si sono fatti attendere. In Svezia, dal 7 aprile a oggi, sono morte di Covid-19 circa dieci persone per milione di abitanti. In Italia 9,7, in Danimarca 2,9, in Norvegia 2 e in Finlandia 0,9. La differenza con i paesi confinanti che hanno adottato misure di lockdown più pervasive saltano agli occhi. Infatti, non sono mancate aspre critiche da parte di esperti svedesi verso il governo, soprattutto nei confronti del suo principale regista, l’epidemiologo di stato Anders Tegnell. Lui si limita a mantenere la posizione e a rispedire le critiche al mittente, suscitando all’estero ire ma anche apprezzamenti.
L’insofferenza che trasuda dagli articoli d’opinione dei media di altri paesi verso la posizione svedese (eccetto quelli più neoliberali che privilegiano l’economia su tutto il resto), non è necessariamente dettata dalla volontà di ridicolizzare l’approccio soft rispetto a quello hard in modo da legittimare il secondo, come accade in Italia. O almeno non solo. Ciò che rende gli svedesi antipatici in questa congiuntura sono le stesse motivazioni che essi offrono per giustificare i propri metodi, sostanziati dalle parole di Tegnell: la Svezia sarebbe un paese fondato sulla fiducia reciproca tra le autorità e la popolazione, per questo non avrebbe bisogno di norme coercitive per garantire l’aderenza degli individui alle raccomandazioni sanitarie; in teoria, basta dire alle persone cosa fare e tutti si conformano. Cosa ne sarà di questa fiducia se la situazione sfugge di mano nel paese? E se invece funzionasse? Allora forse la fiducia sarà rinsaldata, e da lì andare avanti nel post-pandemia potrebbe essere più facile. La collaborazione sarà infatti fondamentale ovunque per implementare test di massa, contact tracing e autoisolamento dei casi positivi, le tre colonne dell’approccio che attualmente appare il più quotato per le fasi successive del controllo pandemico.
Ci sono ancora molte cose che non sappiamo e altre che non possiamo prevedere. Il macabro conto si farà, come sempre, alla fine. Nel frattempo l’unica certezza è che l’attuale crisi sanitaria da Covid-19 sia l’effetto di ragioni sistemiche più che virali, dell’insufficienza cronica dei sistemi sanitari, dell’impreparazione alle emergenze e della mancanza di staff, nei paesi ricchi come nei poveri. Avviarsi verso la riapertura deve trasformare questa evidenza in nuove politiche a favore dei servizi pubblici e dei lavoratori davvero essenziali. In ogni caso, ci sarà da lottare e sperimentare, più che celebrare. (salvatore de rosa)
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