Di recente ho rivisto un cortometraggio, Il quarto piano, che abbiamo fatto molti anni fa, in cui un gruppo di bambini rom e italiani, dopo aver dipinto la casa dei sogni all’interno di un appartamento diroccato, occupato e “rigenerato”, della vela gialla di Scampia, accompagnano un giovane straniero, proveniente da chissà dove, in un tour muto e un po’ magico, come un grande gioco dei mimi. Annaffiare le piante, farsi la doccia, mettere la musica, farsi belli, avviare una lavatrice, stappare una bottiglia, leggere un libro, ballare, aggirarsi per casa, lavare i piatti, scegliere un vestito, suonare la chitarra, guardare una partita, sorridere davanti al panorama di periferia intravisto da un terrazzo. Gesti della vita quotidiana, in cui l’acqua è la protagonista, messi in atto da un gruppo di bambini sognatori ma con le idee chiare, che nella realtà vivono circondati da cumuli di macerie, in baracca ma anche nelle vele o in altri rioni. Ci conducono per mano nella loro casa e pian piano gli occhi si aprono, ci scuotiamo dall’incanto e ci rendiamo conto delle responsabilità che pesano su chi li ha condannati a vivere in una condizione in cui lavarsi i capelli diventa una fantasia.
Le bambine e i bambini rom hanno continuato a nascere e crescere negli stessi luoghi fino a oggi, quando nella metropoli napoletana si contano decine di campi, tra abusivi spontanei e “villaggi” o centri di accoglienza legali. Anche i bambini napoletani hanno continuato a crescere nelle vele o in altri rioni popolari ma questa è un’altra storia che ogni tanto si incrocia con la nostra. A eccezione dei pochissimi che riescono a spostarsi in appartamento, o di quelli che resistono in una determinata zona contro ogni pronostico, le variabili sono: spostarsi da un campo all’altro a causa di sgomberi oppure andarsene via, cambiare paese, trovarsi da soli soluzioni accettabili. È una vecchissima storia che, con amara ironia, finisce con il dare ragione a chi ritiene che i rom siano “nomadi”.
Un abitare dignitoso, documenti, lavoro, diritti di cittadinanza, accesso alla salute, sono lotte quotidiane dalle quali è molto difficile risultare vincitori. Il diritto alla vita viene sistematicamente messo in discussione. Ma le comunità rom della Campania, e dell’Italia, non sono le uniche a trovarsi in condizioni estreme. Non è un caso che nasca nel 2011 una Strategia di inclusione delle comunità RSC – rom sinti caminanti, voluta dall’Europa e diramata agli stati membri, che si articolava intorno a quattro assi di intervento – l’abitare, il lavoro, la sanità, l’istruzione – con fondi destinati alla implementazione della medesima strategia, declinata in maniera differente a seconda delle zone e delle politiche pubbliche.
Il convegno organizzato da Casa della Carità a Milano dal titolo “Rom e Sinti in Italia? È possibile!”, ci dà l’occasione per fare luce su alcuni aspetti di un dibattito che rischia altrimenti di diventare ripetitivo, anacronistico, privo di risultati e quasi esclusivamente per gli addetti ai lavori.
Nelle due giornate di approfondimento a cui hanno partecipato esponenti di enti, associazioni e istituzioni pubbliche e private che si occupano della materia a vario titolo, sul territorio nazionale ed europeo, sono emerse pratiche consolidate, azioni più o meno innovative a livello locale su temi come istruzione, contrasto alle discriminazioni, attivismo rom, tentativi di codificazione della lingua romanes e affermazione di una identità culturale; approfondimenti maggiori sui temi del lavoro, dello sfruttamento, di una maggiore coscienza dei propri diritti – con il solito divario tra nord e sud – e della costruzione di strategie di difesa. Particelle sparse che occasionalmente provano a incontrarsi in un’ottica di comunità di pratiche. Si cerca di superare con molta buona volontà la parola integrazione, dal sapore colonialista, nonostante sia un termine ancora caro a un certo establishment, soprattutto in ambito educativo e scolastico, e si parla invece di inclusione, convivenza, intercultura.
Ma, a giudicare da uno scenario nazionale che colloca le comunità rom su un piano di assoluta subalternità, balzano agli occhi soprattutto l’assenza di un piano organico, di un sistema che funzioni sul livello nazionale. Da questo punto di vista, è sempre encomiabile il tentativo di radunare sotto lo stesso tetto persone che potrebbero appartenere a una stessa area, se non fosse che “occuparsi” dei rom – con, per, sopra o accanto – non significa necessariamente avere in comune una visione pedagogica, sociale, economica e, in definitiva, politica.
L’Europa ci propone uno scenario internazionale altrettanto grave e preoccupante, in cui l’esclusione sociale, abitativa, lavorativa e le discriminazioni contro le comunità rom, dall’Ungheria alla Spagna, sono la regola, con piccole eccezioni di programmi d’inclusione che tuttavia funzionano parzialmente e solo in alcuni ambiti. Ci sono alcuni dati positivi per l’accesso ai servizi sanitari, migliori percentuali sull’istruzione primaria o l’accesso al lavoro, qualche sporadica politica abitativa che si può prendere, sempre con le pinze, a modello. Tuttavia, l’ambizione di intrecciare i piani delle politiche pubbliche in una visione che contempli la vita di un individuo, sebbene rom, come un organismo complesso, inserito in una società di cui condivide percorsi e storie, appare veramente utopica.
È molto chiara, in questo senso, la risoluzione del parlamento europeo del 12 febbraio 2019, che usa parole dure contro l’inadeguata politica degli stati membri nonostante gli strumenti – risorse finanziarie cospicue – messe a disposizione dall’Unione. “Considerando – dice la risoluzione – che l’attuale quadro dell’Ue non prevede obiettivi chiari e misurabili; che le procedure di monitoraggio qualitative e quantitative sono insufficienti e le raccomandazioni specifiche per paese non sono vincolanti; […] considerando che la maggior parte dei programmi di carattere generale non sono inclusivi per i Rom e che le azioni mirate coperte dai fondi strutturali non hanno apportato cambiamenti positivi e sostenibili nella vita dei Rom più svantaggiati; considerando che gli stati membri hanno la chiara responsabilità di adottare misure correttive contro pratiche discriminatorie nei confronti dei Rom…”.
Considerato tutto questo, e molto altro ancora, a quali conclusioni arriva il parlamento europeo? La risposta è deludente: si “invitano” gli stati membri a fare di più. Ma il problema resta, le risoluzioni non hanno alcun potere vincolante. Gli stati membri, alcuni dei quali, tra cui l’Italia, più volte condannati e multati dalla stessa Europa per le politiche discriminatorie nei confronti dei rom, non hanno alcun obbligo di seguire le indicazioni del parlamento, e possono tirare dritto per una strada che nella maggior parte dei casi rinforza l’esclusione, la repressione, la stigmatizzazione delle comunità rom, poiché questo diventa strumento politico e cavallo di battaglia delle propagande più populiste. Allo stesso tempo, deve essere altrettanto chiaro che la situazione non è peggiorata con il Salvini di turno: il razzismo istituzionale, le politiche repressive sprezzanti dei diritti umani e il discorso d’odio che contribuisce a diffondere, si inseriscono in un solco preciso che da decenni riguarda le comunità rom.
Il convegno si svolge nei primi giorni dell’attacco turco ai kurdi in Rojava, dove a morire sono le persone e con esse sogni, speranze e concrete possibilità di costruire un sistema altro. Siamo lontani anni luce da un periodo in cui ci si poteva consentire di sognare, fantasticare e usare addirittura armi poetiche per provare a ribaltare il mondo – ma, senza peccare di ingenuità, non possiamo smettere di credere nella capacità umana di organizzarsi e in qualche modo resistere. Analizzare la situazione europea, avere un quadro generale preciso, sebbene molto oscuro, può essere un buon punto di partenza per rafforzarsi, alzare il livello del ragionamento e affrontare radicalmente e strategicamente la questione, che va molto oltre la problematica locale e mette in discussione la dignità di intere società. Se non riusciamo a fare questo, resteremo per sempre relegati in una sterile autoreferenzialità, un convegno sui rom nel 2019 risulterà essere solo deprimente mentre le comunità rom resteranno in eterno un capro espiatorio. (emma ferulano)
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