Arrivo presto fuori la sede dei disoccupati di Acerra. Anche chi non la conosce, ma ha bazzicato almeno qualche mese tra compagni e movimenti cittadini, ne ha sentito parlare. Il sole non è ancora forte, l’aria è triste, gli occhi lucidi. Chiunque passa si affaccia nelle stanze della sede e con lo sguardo di chi sta ricordando un particolare, un aneddoto, un sorriso, si incupisce. Non si sa mai bene cosa fare e dire in questi casi.
Chicco sono due giorni che va avanti e indietro, non si ferma mai, non vuole pensare, si vede che non vuole rendersi conto di quello che sta succedendo. Ieri mi ha portato a vedere un palazzo abbandonato, cosi, senza motivo. Era un modo per sfuggire ai pensieri e ai ricordi, me ne sono accorto e mi sono fatto portare li a vedere il niente, ma a non pensare.
Mi siedo all’esterno della sede, il sole inizia a scottare. Vicino a me c’è don Luigi, un comunista novantenne, amico di partito di Giovanni, il papà di Consiglia. Lui lo chiamava ‘o Cumpagnone, perché era compagno di tutti, sempre a disposizione. All’improvviso dalle palazzine del rione Gescal arriva Consiglia. Sulla bara una mazza e una bandiera rossa, cosi voleva lei. Appena varca l’ingresso della sua “casa” parte Bella Ciao. Le voci sono quelle di signore piene di anni di vita, gambe che hanno marciato chilometri dietro uno striscione.
Mi risiedo, non entro a vederla, non ci riesco. Don Luigi con me, si rimette il cappello, guardandomi dice che quando piangono tutti gli viene da piangere anche a lui. Solo che lui è uomo d altri tempi, mica piange, e intanto i suoi occhi continuano a cacciare lacrime. «Le case quaggiù le abbiamo occupate tutte, ‘o ssaje guaglió», mi dice come se fosse la prima volta che lo racconta, sapendo che quella storia invece la conosco bene. «Quando arrivarono le guardie mettemmo tutti una bombola del gas fuori dal balcone. Se ne andarono senza nemmeno fermarsi. Conquiste e sconfitte, comunque è andata qua abbiamo fatto la storia. Senza mai indietreggiare, ma non lo facevamo solo per vincere, nella vita perdere è normale quando combatti, e noi abbiamo combattuto contro lo stato, contro i padroni, contro tutti».
Il sole è sempre più forte ma don Luigi mi tiene incollato sulla sedia con la forza di quel filo di voce. Poi però arriva il momento di andare. Consiglia deve andare, ma bisogna accompagnarla. C’è una specie di tensione triste nell’aria, ci sono i parenti, gli amici e i compagni di una vita. Chicco si piglia la bandiera e comincia a sventolare. Lo seguono gli altri, ne spunta una un po’ più strana. Qualche ora prima, una delle compagne di Consiglia si era fatta dare un’asta e l’aveva alzata fuori la sede. «Dobbiamo mettere la bandiera dei compagni nostri!», un ricordo di quando alcuni militanti curdi, conosciuti a Roma durante un corteo, erano stati poi ospiti proprio qui.
Esce la bara, comincia il corteo. L’unico modo per salutare una così, l’unico modo per continuare a credere che ci stia guardando, è fare quello che avrebbe voluto, rabbia e sentimenti in un solo corpo. Arrivati alla chiesa si forma una sorta di presidio spontaneo, all’esterno. Discorsi, facce stanche, il sole è un martello sulla testa e nella testa si affollano i ricordi. Esce Consiglia e se ne va, mentre la macchina si allontana, nelle orecchie fischia il vento e dalla pancia forte esce un saluto. Ciao Bellissima. (raffaele aiello)
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