È un sabato qualsiasi di febbraio. Una giornata grigia ma non troppo fredda. Ho appuntamento con Mohamed per le tre del pomeriggio. Scendo di casa un po’ prima per arrivare in moschea a piedi. Cammino lento, arrivo a piazza Garibaldi dopo una mezz’ora e ne attraverso il lato nord. Da quando è stato riaperto è popolato dai ragazzini del quartiere che giocano nei campetti di calcetto e pallacanestro, dagli uomini stanchi che siedono sui gradoni all’ingresso della metro, da poche donne che l’attraversano.
La moschea as-Salam (“pace” in arabo) è in fondo a via Torino. Percorro tutta la strada partendo da piazza Garibaldi ed è un susseguirsi di negozi, ristoranti e alimentari gestiti da migranti, alcuni dei quali commercializzano prodotti halal. Passo davanti al palazzo della Cgil che qualche anno fa è stato al centro di una polemica riguardo ai debiti accumulati nella gestione e al trasferimento di molti uffici in via Toledo. Si parlò di abbandono di un territorio difficile che, tradotto, significava sconfessione del ruolo del sindacato. La sede di via Torino non è più il centro sindacale di un tempo nonostante ospiti ancora diverse funzioni tra cui caf, patronato e ufficio immigrati.
Arrivo alla moschea in anticipo. Seduto davanti a una delle porte c’è Amir al quale dico di avere un appuntamento con Mohamed. Mi dice che è ancora presto, prende una sedia dalla stanza dove si tengono le lezioni di arabo e mi invita ad aspettare con lui. Ne approfitto per fargli qualche domanda, dopo aver risposto alle sue sui motivi che mi hanno portato lì. Amir è egiziano e vive in Italia da più di venticinque anni. Mi mostra orgoglioso le foto del figlio che studia a Milano ma non riesco a sapere di più perché veniamo interrotti dal chiasso di alcuni ragazzini che salutano Amir e poi me, timidamente, prima di infilarsi nella sala ordinata in file di banchi e sedie.
Dietro ai ragazzini arriva Nezha, l’insegnante. Mi porge la mano precisando che per lei non è vero quello che dicono, che non ci si può salutare così tra maschi e femmine, e quindi lei lo fa non curandosene granché. Nezha scambia qualche parola con Amir e quando capisce che ho studiato arabo mi fa alcune domande. Con un po’ di imbarazzo le dico che mi farebbe piacere ricevere delle lezioni per migliorarlo. Nezha è contenta, mi dà un numero di telefono e accenna alla fortuna che si può avere nella vita a incontrare persone capaci di farci capire qual è il vero Islam. Non è la prima volta che mi capita di sentire questo tipo di parole. In verità mi è capitato quasi tutte le volte che ho messo piede in una moschea. È la dawa, l’invito, la chiamata all’Islam che i musulmani, tutti, rivolgono al loro prossimo.
Dopo qualche minuto Nezha si congeda e richiama a sé i ragazzini per la lezione. Nel frattempo arriva Mohamed che mi viene incontro mentre lascia disposizioni ai figli per la collocazione e la distribuzione dei libri di testo. Con Mohamed entro nell’ampia sala di preghiera che il venerdì ospita circa trecentocinquanta persone. Ci sediamo in fondo, dal lato opposto all’ingresso e, dopo i ringraziamenti di rito, ripercorriamo la storia della moschea partendo da un altro tempo e da un altro luogo. L’Associazione per la pace as-Salam è nata nel 2010 quando un gruppo di dieci persone, di cui cinque sposate con italiane, decide di prendere in affitto in via Cosenz due piani di un palazzo, uno dedicato alla preghiera e l’altro all’educazione e alla ricreazione dei giovani. L’esigenza, mi racconta Mohamed, era quella di abbattere le barriere delle differenze religiose, di creare un luogo aperto, meno austero rispetto agli altri.
I risultati sono buoni, si crea un rapporto di fiducia con il tessuto sociale della città, l’associazione cresce e già dopo qualche anno si fa strada tra i soci l’idea dell’acquisto di locali da adibire al culto. L’idea è ambiziosa, per l’acquisto di locali adatti bisogna mobilitare grosse risorse e fare appello a tutte le energie. Non è semplice, ma una moschea di proprietà è il segno evidente della presenza definitiva dei musulmani in città. L’associazione si riorganizza, vengono cooptate altre persone, si raccolgono fondi, si riscrive lo statuto per accedere al finanziamento, si attiva la rete delle associazioni islamiche sul territorio nazionale. L’UCOII (Unione delle comunità islamiche in Italia) è il riferimento immediato per le relazioni costruite nel tempo. L’organizzazione che quest’anno raggiunge i trent’anni di attività non fa mancare il suo sostegno, tanto che fuori la porta d’entrata della moschea, da tre anni c’è anche il simbolo dell’UCOII, affianco al nome dell’associazione as-Salam. La moschea della pace è il primo luogo di culto di proprietà di un’associazione islamica a Napoli.
Mohamed ci tiene a precisare che tutto è stato fatto seguendo le regole, come quando nel 2010, prima dell’apertura dei locali in via Cosenz, gli associati hanno provveduto ad avvisare la questura sull’opera dell’associazione. Una forma di auto-disciplinamento che attraversa e riguarda tutti i livelli, dai permessi per i lavori di copertura della sala di preghiera fino alle attività relative al culto e all’insegnamento linguistico e religioso.
Fin dal primo giorno, mi dice Mohamed, l’associazione ha insegnato ai bambini a credere in Allah, in tutti i suoi profeti, da Abramo a Mosè, da Gesù fino a Maometto, il sigillo della Profezia, l’ultimo nella catena della Rivelazione. Dice Mohamed che chi nega uno di questi nega l’Islam. Hanno insegnato ai bambini a credere negli angeli e nel destino, buono o cattivo che sia, perché volontà di Allah.
È lo stesso destino che ha portato questi musulmani in una città che non ha ancora fatto i conti con una minoranza religiosa sempre più consistente e che si organizza in modi diversi a seconda della provenienza, della storia e del rapporto dei credenti con la società napoletana. Nella moschea della pace tutto sembra mostrare uno sforzo per abitare nella maniera meno traumatica possibile la città. In via Torino i musulmani sono proprietari di un luogo di culto e fanno attenzione ai dettagli per ripetere e ribadire, in uno spazio non islamico, la propria esistenza religiosa. (nicola di mauro)
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