Scrive una ragazza di Barcellona che ieri per mettersi in fila dal panettiere, come sempre, ha chiesto: «Chi è l’ultimo?». Tutti i clienti hanno risposto ridendo: «Il PP!». Il partito al governo in Spagna, il partito di Rajoy, in Catalogna ha preso poco più del quattro per cento. È una sconfitta storica, dopo la militarizzazione della regione e la criminalizzazione di oltre due milioni di persone per aver provato a votare il primo ottobre – per non parlare dei quasi mille feriti certificati, dei parlamentari arrestati o esiliati e del commissariamento di un’intera amministrazione regionale (tra l’altro, per aver tentato di applicare dei programmi elettorali già approvati da Madrid). Il presidente del PP catalano, Albiol, ha considerato “inammissibile” aver ottenuto meno deputati della CUP, gli indipendentisti di base, che pure hanno perso quasi metà dei loro voti. È lo stesso aggettivo usato dal re Filippo di Borbone per condannare il referendum, definito una “slealtà inammissibile” da punire con la forza. Durante questo Natale agrodolce, breve pausa nell’escalation politica di questi tre mesi, la sparizione del PP dalla Catalogna è sicuramente un regalo morale: come a dire, la forza non sempre paga.
Quest’autunno, oltre alla capacità organizzativa della società catalana, abbiamo assistito all’imbarazzo delle sinistre italiane. Ogni articolo pubblicato in Italia esordiva mettendo in guardia i lettori dai pericoli del nazionalismo, quasi a scongiurare un contagio; quanto alle azioni, non abbiamo avuto neanche una manifestazione di solidarietà. È il riflesso dell’ambiguità dimostrata dai “nostri”, Podemos e Barcelona en Comú, la formazione guidata da Ada Colau, la cui sconfitta in queste elezioni ci sembra un simbolo della fine del dialogo e della ragionevolezza. La metafora abusata dello “scontro fra treni” ci fa immaginare Ada o Pablo Iglesias come mediatori in grado di fermare le due locomotive per il bene di entrambe: “Né con l’indipendenza, né con Rajoy!”, hanno ripetuto per mesi. Ma nei conflitti la neutralità è la ragione del più forte. La dichiarazione unilaterale d’indipendenza e il commissariamento della regione non sono sullo stesso piano: Rajoy può far arrestare Puigdemont, ma Puigdemont non può far arrestare Rajoy. Metafora più corretta sarebbe un Suv che sta investendo un ragazzino: i rapporti tra i due dovrebbero sicuramente essere diversi (il Suv in corsia, il ragazzino sul marciapiede) ma in nome di questa utopia non possiamo dichiararci neutrali. Inoltre, Colau già due anni fa scelse di allearsi con un partito di governo (il PSC, i socialisti catalani) piuttosto che con la sinistra anticapitalista (la CUP). Più che mediatori esterni, i “nostri” sono passeggeri riluttanti del Suv. Da qui la paralisi.
È difficile immaginare la tensione in cui si sono svolte queste elezioni. Il panico suscitato dall’indipendentismo catalano negli apparati statali della Spagna non si può paragonare ad alcun altro movimento di protesta, escludendo il separatismo basco. In quel caso, il governo spagnolo sosteneva che se l’ETA avesse eliminato le armi si sarebbe potuto discutere su tutto. Il movimento catalano dimostra che non è vero. L’Estatut del 2006 chiedeva un’indipendenza fiscale simile a quella di cui già godono le regioni basche, ma il processo è stato bloccato dal Tribunal Constitucional, su richiesta del PP. L’indipendentismo nasce proprio dalla coscienza che nessuna trasformazione sociale è possibile all’interno di questo quadro giuridico in cui il potere politico e quello giudiziario sono così legati, e che è necessaria una rottura. I “nostri” potevano raccogliere la sfida: rafforzare i contenuti anticapitalisti del processo d’indipendenza, estendere la rottura al resto della Spagna, mettere in dubbio il re e l’oligarchia, spingere per una repubblica federale. Invece hanno scelto la via facile, quella che da sempre usano PP e PSOE: soffiare sul fuoco “etnico”.
Il successo della lista Ciutadans, che in queste elezioni ha ottenuto la maggioranza relativa, è il risultato dell’etnicizzazione di un conflitto politico. Ciutadans funziona come la Lega da noi: incanala il malcontento popolare dirigendolo verso il diverso, presentandolo come una minaccia per la sicurezza, proponendo soluzioni drastiche. Solo che il nemico, questa volta, è interno. In Spagna, evocare la diffidenza verso i catalani e i baschi funziona, il PP ci ha basato gran parte della sua propaganda, e il PSOE non è stato da meno. Ciutadans ha ripreso questo metodo, ma è riuscito finalmente ad applicarlo dentro la Catalogna, diventando rapidamente l’espressione locale della grande impresa spagnola e dell’estrema destra – in particolare dell’ex premier PP Aznar e della sua fondazione. Qualche commentatore da noi ha avuto l’ardire di definire questo partito “moderatamente progressista”; è vero che alle sue origini c’erano anche personaggi interessanti della sinistra anticatalanista (come il giornalista Arcadi Espada), ma Ciutadans ormai da un decennio si dedica a orientare in senso etnico il risentimento politico collettivo verso l’establishment. Nel 2015 aveva vinto soprattutto nei quartieri più ricchi di Barcellona, ma in questa campagna elettorale, dopo aver speso due milioni di euro, più di qualunque altro partito (dando luogo a polemiche sulle fonti di finanziamento: si veda qui e qui), ha ottenuto ottimi risultati nelle periferie di Barcellona, le zone più povere della Catalogna.
Le periferie sono state le grandi assenti in questo “processo”. Rispetto al movimento degli Indignados, nato al centro di Madrid e poi diramatosi a Barcellona e nelle piazze principali di tutte le città, solo in un secondo momento in provincia, il movimento indipendentista ha fatto il percorso inverso: è nato nei paesi e nelle città dell’interno e ha raggiunto Barcellona di riflesso. Nella metropoli cosmopolita, dove era stato sempre debole, ha avuto subito presa; molte strutture di movimento languivano dopo la presa del potere dei suoi rappresentanti politici “en Comú”. Le caceroladas, i comitati di quartiere, i social media, gli accampamenti nelle piazze, tutti strumenti fioriti con il movimento degli Indignados, sono confluiti nella mobilitazione indipendentista; si potrebbe quasi dire, con Amador Savater, che l’intero movimento degli indignati è confluito nell’indipendentismo. Ne è rimasta fuori la classe politica sorta da esso, che nel frattempo si è alleata con la parte “buona” del vecchio regime, e ha difficoltà a separarsene. Per questo tanti collettivi e figure importanti del movimento hanno sostenuto l’indipendentismo, nonostante le bandiere (lo spiega bene Bifo). Tra questi addirittura uno dei fondatori di Podemos, che ha rotto con il partito.
Si pensa spesso che le periferie di Barcellona siano anti-indipendentiste perché abitate da migranti spagnoli. Ma l’antica “cintura rosso-nera” anarchica, che circondava la città con i quartieri dei migranti del sud della Spagna, è sempre stata una zona di meticciato e resistenze culturali. I comitati di quartiere vi hanno imposto la loro agenda ai politici, il ricordo della clandestinità antifranchista è ancora vivo, catalani e castigliani vi hanno lottato e sofferto insieme. C’è una parola per definire il miscuglio tra spagnoli e catalani nelle periferie: charnegos (o xarnegos in catalano) si definiscono gli abitanti di queste zone nate dalle migrazioni di inizio Novecento, e poi degli anni Sessanta. La cultura xarnega è una subcultura catalana, i charnegos rivendicano l’identità catalana, anche i più ostili all’indipendentismo. I figli dei migranti si sentono barcellonesi e catalani, anche quando (spesso) non parlano la lingua; a poco sono servite le campagne di “normalizzazione linguistica” della Generalitat in questi quartieri: a Barcellona le due lingue si prestano e si scambiano parole e concetti, spesso causando imbarazzo nei visitatori delle zone centrali, che vi trovano una Catalogna ben diversa da quella immaginata. Compresi quelli delle “nuove sinistre”, che hanno raccolto in queste zone consensi piuttosto tiepidi.
Contrariamente agli stereotipi, in queste aree l’indipendentismo è ben radicato, e continua a vincere. Nelle elezioni del 21 dicembre, Ciutadans ha preso moltissimi voti in periferia; ma anche l’indipendentismo è cresciuto rispetto al 2015. Radio La Mina, che trasmette dal quartiere più stigmatizzato e gitano dell’area metropolitana, in cui il catalano è residuale, è strenuamente indipendentista sin dall’inizio del “procès”. Gli abitanti di Nou Barris hanno difeso il referendum con energia e creatività, come si vede in questo video straordinario. In queste zone è già realtà l’idea di una Catalogna plurinazionale e plurilinguistica, in cui la vendetta storica per la proibizione franchista del catalano e la repressione dei catalani non può, fisicamente, tramutarsi in un rifiuto “etnico” del castigliano o dei castigliani. Naturalmente ci sono grosse aree charnegas dove l’indipendentismo è minoritario, per esempio Santa Coloma de Gramanet; ma altre in cui è sorprendentemente forte. A Bon Pastor, periferia nord, il primo partito è Ciutadans, con seicento voti più di due anni fa, cioè 1900; ma i due grossi partiti indipendentisti (ERC e Junts per Catalunya) sommano comunque 2000 voti (però ne avevano 2500 nel 2015). Il PP, la CUP e i Comuns hanno perso trecento voti ciascuno, e il PSC è rimasto invariato. A Bon Pastor i Comuns hanno cercato i loro rappresentanti tra i militanti della sinistra storica, filogovernativa, senza osare proporre niente di nuovo. Gli abitanti hanno scelto in modo più radicale.
Insomma, il risultato delle elezioni catalane è complesso, ma chiaro. La votazione è stata imposta da un governo centrale che ha sciolto d’autorità il parlamento eletto; i catalani e le catalane le hanno usate come sostituto per il referendum proibito. Non si sceglieva tra destra o sinistra, ma tra sì o no all’indipendenza, sì o no al commissariamento. Si votava sì o no agli arresti e alle minacce; sì o no a uno stato autoritario che ha salvato le banche e sacrificato i cittadini, a una Europa che piace alle oligarchie al governo, alle sinistre complici o neutrali. Tanti votanti del PP e del PSOE hanno scelto Ciutadans perché più efficace nella repressione; tanti votanti delle sinistre, dalla CUP ai Comuns, hanno votato i partiti che hanno i deputati in carcere (ERC e JxC). Il successo di Ciutadans è un duro colpo; un milione di persone hanno votato una formazione sostenuta dai settori più antisociali dell’imprenditoria spagnola, e che approva le violenze della polizia, la censura alla libertà d’espressione, le denunce ai maestri catalani per “incitazione all’odio”. Ma gli indipendentisti, che invocano invece una rottura radicale con lo stato (di cose) presente, anche se in modo pacifico, hanno comunque la maggioranza, e questo è un fatto inaudito in Europa. Hanno superato i due milioni di voti del 2015, ottenendone centomila in più. L’unico governo possibile nella regione rieleggerà come presidentessa del Parlamento la stessa che l’Audiencia Nacional aveva arrestato e rilasciato sotto cauzione. Avranno un appoggio solido sia in provincia che nelle città, sia al centro che nelle periferie, e al loro interno la sinistra (ERC+CUP) sarà più forte della destra (JxC).
In breve: il sette per cento dei catalani e delle catalane ha scelto la via intermedia di En Comú Podem; tra tutti gli altri, metà dei catalani e delle catalane (e qualcosa in più) ha detto sì alla rottura con la Spagna, l’altra metà (e qualcosa in meno) ha detto no. Questi risultati non hanno niente a che vedere con l’identità etnica, con le frontiere, con il nazionalismo: lo dimostrano le periferie di Barcellona. Ha a che vedere invece con lo Stato, e in particolare con la forma autoritaria e corrotta che abbiamo la sventura di subire nel sud dell’Europa. Una volta chiarito questo, bisogna solo uscire dall’imbarazzo: il voto catalano ci sta chiamando a prendere posizione, a immaginare un’alternativa, a smettere di dare per scontato un ordine sociale ingiusto. (stefano portelli)
Quest’articolo è stato modificato rispetto alla sua versione originale. Un ringraziamento a Steven Forti per le puntualizzazioni.
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