Con la giornata di venerdì, 21 dicembre, il movimento indipendentista catalano ha dimostrato di avere ancora una grande forza di mobilitazione di base, e soprattutto di non essere facilmente manovrabile dalla sua stessa élite. Per la prima volta in quarant’anni, il consiglio dei ministri spagnolo ha deciso di riunirsi a Barcellona: ufficialmente, come segno di distensione del nuovo governo socialista verso la questione catalana; in pratica, trasmettendo un messaggio autoritario molto simile a quelli del governo precedente. La città militarizzata, con l’invio di migliaia di agenti da altre parti della Spagna, ricordava il referendum del 1° ottobre 2017. Tutta la parte di litorale intorno al palazzo della Llotja, dove si svolgeva l’incontro, era una “zona rossa”, come nei vertici degli anni Novanta. Il governo socialista ha portato a Barcellona le stesse brigate antisommossa responsabili delle peggiori violenze del 1° ottobre. Strano modo di dimostrare distensione.
Esattamente un anno prima, il 21 dicembre 2017, il governo spagnolo aveva costretto i catalani a votare di nuovo, dopo aver sciolto il parlamento eletto. La scelta di questa data per il nuovo vertice, quindi, non poteva che rappresentare una provocazione per il movimento catalano: dopo la pesante repressione al referendum, dopo l’arresto dei deputati, le minacce al presidente Puigdemont (anche di morte) che lo spinsero all’esilio, che bisogno c’era di celebrare questo incontro in Catalogna, proprio ora? Soprattutto con i prigionieri politici catalani ancora in attesa di processo, alcuni dei quali in sciopero della fame. La mattina, l’incontro tra il presidente spagnolo Sánchez e il presidente catalano Quim Torra ha portato alla stesura di un “patto” totalmente privo di senso; le due parti dichiarano di voler risolvere il conflitto “nel quadro della sicurezza giuridica”; ma se per Sánchez il quadro di riferimento è la Costituzione spagnola, che vieta ogni tentativo di secessione, per Torra è la nuova Repubblica catalana, la cui nascita è stata proclamata dalla Generalitat subito dopo il referendum.
Sin dai giorni precedenti, i Comité de Defensa de la República (ne ho parlato qui) avevano annunciato la volontà di impedire il vertice, suscitando l’ira dell’estrema destra spagnola, che ha invocato la loro proibizione, la fine dell’autonomia catalana, addirittura ventilando il reato di ribellione. L’associazione culturale Òmnium, simbolo dell’attivismo catalanista sin dagli anni Sessanta, ha organizzato un consiglio dei ministri alternativo, a poca distanza dal palazzo del vertice. Ci sono stati blocchi delle autostrade in tutta la Catalogna, manifestazioni in tutte le città e paesi, e a Barcellona oltre trecentomila persone hanno sfilato intorno alla zona rossa. Nell’area del Parallel, alcuni manifestanti hanno forzato le transenne: tra gli incappucciati che manifestavano, molti dei quali dichiaratamente pacifisti, altri hanno rovesciato cassonetti ma sono stati isolati e cacciati dalle manifestazioni. Probabilmente in più di un caso si trattava di infiltrati. I Mossos d’Esquadra, si sono distinti, come sempre, per l’uso arbitrario e inutile della violenza fisica e dell’intimidazione (si veda questo video, in cui i manifestanti gridano “fuori le forze di occupazione” alla polizia catalana!). In tutto, tredici arresti e una sessantina di feriti, tra cui un uomo che ha perso un testicolo per l’impatto di un proiettile di gomma.
I risultati di questo vertice? Il salario minimo interprofessionale è stato alzato fino a novecento euro mensili. Un’ottima mossa, decisa già da mesi, ma che si poteva fare benissimo a Madrid. Un capolavoro dell’ambiguità politica sono i due provvedimenti mirati al riscatto della memoria storica della Repubblica catalana, spazzata via dal colpo di stato franchista. Il governo ha chiesto perdono per la fucilazione del presidente Lluís Companys nel 1940, e ha ribattezzato l’aeroporto di Barcellona con il nome del presidente della Generalitat catalana, Josep Tarradellas, esiliato per vent’anni durante la dittatura. Di nuovo: questi gesti possono sembrare distensivi, ma oltre a essere fuori tempo massimo (Francia e Germania, che collaborarono all’assassinio di Companys, chiesero perdono molti decenni fa), reiterano il diritto assoluto del governo spagnolo di decidere sulla regione, senza né chiedere né avvisare Comune e Generalitat. Un “doppio legame”, che afferma il potere e la subordinazione sotto le sembianze di un dono. Ma l’accettazione da parte delle autorità catalane non ha ridotto la volontà della popolazione di protestare nelle strade: uno degli slogan con cui è stata convocata la giornata di lotta era proprio “saremo ingovernabili”, e le proteste si sono dirette anche contro la polizia e le autorità catalane. Nella manifestazione hanno sfilato insieme gli attivisti di classe media di Ómnium, i portuari anarchici della CNT, con i pompieri catalani che tenevano i manifestanti al sicuro dai Mossos d’Esquadra.
Insomma, la situazione è complessa: lo stesso fatto di chiamare al “blocco del paese” senza convocare uno sciopero generale dimostra la difficoltà strategica in cui si trova il movimento per la Repubblica, dopo un anno di manifestazioni, repressione e minacce. Contemporaneamente, la tenacia collettiva, l’obbiettivo di creare un nuovo quadro istituzionale nel quale siano possibili riforme sociali vere, non solo simboliche, sono insegnamenti importanti. Non aiuta certo la scarsissima considerazione che questo movimento riceve dai giornali italiani, che estrapolano gli episodi dal contesto e insistono a paragonare la Catalogna alla Padania. L’unica notizia della giornata di ieri era quella del pugno di un manifestante a un giornalista, presentato come vittima incolpevole di un gruppo di matti. Si dimenticava di dire che il giornalista era di estrema destra, e che aveva aggredito per primo i manifestanti repubblicani. Paradossalmente, il giornale che ha riportato la notizia in questione si chiama proprio La Repubblica. (stefano portelli)
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