Quello che segue è il terzo di una serie di articoli sulla relazione tra le trasformazioni della città e l’incremento dei flussi turistici. Potete leggere gli altri due ai link che seguono: Parco tematico Quartieri Spagnoli. Un’inchiesta sul boom del turismo; Dormire, mangiare, parlare. Come Napoli soddisfa i bisogni dell’Homo Turisticus.
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Nella narrazione attuale della città e della sua presunta rinascita emerge – sottotraccia – il concetto di “rigenerazione urbana”, che prevede l’impiego sinergico di elementi urbanistici, economici e culturali per avviare e sostenere una trasformazione delle metropoli. Si tratta di una prassi già sperimentata in altri contesti, il cui fulcro è imperniato sul recupero e la ri-funzionalizzazione di spazi abbandonati con l’obiettivo di restituire loro un nuovo ruolo, così come sul recupero di quartieri degradati contenendo l’edificazione di nuove cubature e il consumo di suolo. Uno dei presupposti è il coinvolgimento della cittadinanza in un circuito partecipato di progettazione e decisionalità continua. Per rimanere in area mediterranea, un esempio (al netto di contraddizioni politiche e controverse ricadute sociali) è rappresentato dall’attuazione del programma Euromed nella città di Marsiglia, attraverso cui una significativa porzione di città (a partire dal waterfront abbandonato dall’industria portuale) è stata ridisegnata totalmente. Al di là delle conseguenze rilevanti sull’impianto identitario della città provenzale, Euromed ha favorito esperienze di rigenerazione come la Friche, iniziata con l’occupazione di antichi depositi ferroviari del quartiere operaio di Belle de Mai e diventata poi un centro polifunzionale di attività artistiche, sociali e culturali sovvenzionato da enti pubblici e indicato come polo di attrazione cittadino su tutte le guide e i siti turistici. Il collettivo che ha inizialmente occupato gli spazi ha intrapreso negli anni una continua negoziazione con le istituzioni, abbandonando progressivamente gli aspetti più militanti e i propositi di trasformazione radicale. Fatto sta che in breve è diventata uno dei magneti del capoluogo provenzale capace di attrarre anche una nuova residenzialità, persone che da tutta Europa hanno deciso di trasferirsi in pianta più o meno stabile, internazionalizzando una città in declino e influendo (in parte) su derive ed esasperazioni sociali.
Il breve excursus marsigliese introduce alcune domande che ci si è posti nel proseguire l’inchiesta sulla trasformazione della città di Napoli, in atto a partire dall’incremento recente dei flussi turistici. In sintesi: la città si sta trasformando in una nuova meta di possibile residenzialità (produttiva, creativa, ecc.) oppure in una città d’arte improvvisata e da consumare, meta di brevi e brevissimi soggiorni, e soggetta alle dinamiche imprevedibili del turismo di massa? E in quest’ultimo caso, sono state avviate esperienze pubbliche, private, dal basso o dall’alto, in grado di consolidare in modo strutturale tale dimensione? Esistono progetti e politiche indirizzate alla costruzione di centri di produzione culturale in grado di porsi come moltiplicatori occupazionali e professionali, frequentati da un pubblico attirato non tanto da una superficie meramente turistica, quanto da un potenziale “fare” nel e del luogo, con possibilità di residenzialità di lunga o media durata?
Per ora, le realtà in grado di svolgere funzione d’attrattore (seppur con alti e bassi) sembrano essere la Fondazione Morra e il Museo MADRE, la prima privata e l’altra pubblica, entrambe tuttavia dirette a un pubblico d’élite, quel bacino di fruitori dell’arte contemporanea che non può essere risorsa esaustiva di una città che si presenta come metropoli mediterranea.
Torniamo ai Quartieri Spagnoli, zona segnata dal più alto tasso di disoccupazione della città, il venti per cento di popolazione straniera residente, verde pubblico pressoché inesistente, attraversata quotidianamente da pattuglie di polizia e carabinieri in servizio di verifica degli arresti domiciliari (o nel mese di gennaio in tenuta antisommossa per evitare l’incendio del tradizionale cippo di Sant’Antonio). Un luogo che la retorica da decenni descrive come “abbandonato dalle istituzioni”. Fin dagli anni Novanta, in realtà, i Quartieri hanno visto lo sviluppo di diversi tentativi d’intervento di matrice pubblico/privata, dal progetto Urban a quello dei “maestri di strada”, fino all’Associazione Quartieri Spagnoli, per decenni punto di riferimento per gli abitanti e motore di politiche urbane innovative.
Dal 2014 l’avanguardia della rigenerazione urbana nei Quartieri Spagnoli ha invece un’anima del tutto privata. Si tratta della Fondazione Foqus, insediata in un ex convento di diecimila metri quadrati in via Portacarrese a Montecalvario. La gestione del complesso, rilevato dalle suore che vi gestivano una scuola confessionale, è affidata all’impresa scolastico-sociale di Rachele Furfaro, Dalla Parte dei bambini, già attiva nei locali di un’altra istituzione scolastica parareligiosa come l’Istituto Pontano. La fondazione, affidata al presidente Renato Quaglia (che con Furfaro è stato uno degli esecutori delle politiche culturali in epoca bassoliniana), ha coinvolto imprese private a supporto di una “coproduzione”, ovvero nel finanziamento di progetti d’impresa indirizzati prevalentemente, ma non solo, a un insieme di “categorie svantaggiate”. Si tratta di una modalità che enfatizza il carattere sociale dell’intervento privato basato sulla facilitazione di nuova imprenditorialità, realizzando percorsi educativi indirizzati a bambini, adolescenti e anziani immersi in un quotidiano “svantaggio”. Una supplenza alla carenza – se non vera e propria assenza – di azioni istituzionali, incentrata sull’efficacia dell’impresa privata come unico motore di sviluppo. Tra i finanziatori dei progetti figurano tra gli altri la Ferrarelle spa, la Fondazione con il Sud e la Fondazione Banco di Napoli.
Un’azione suppletiva che caratterizza altre esperienze di carattere misto pubblico/privato, legate all’uso civico dei beni comuni diventati, loro malgrado, il leit motiv della narrazione istituzionale. Con la delibera comunale 446/2016, licenziata poco prima delle ultime elezioni amministrative, alcuni spazi occupati nella città sono stati riconosciuti come “liberati” e ascritti formalmente al patrimonio politico e culturale della città. La misura implica in primo luogo la sottrazione dei luoghi al rischio di sgombero coatto e garantisce la possibilità di sviluppo delle pratiche già attive negli spazi in questione. Alcuni di questi sono diventati in questi anni baluardi del movimento degli spazi liberati. In particolare, l’ex Asilo Filangieri ha assunto su di sé l’onere di supplire all’afasia della politica culturale cittadina diventando il crocevia di incontri tra artisti locali e internazionali. I luoghi istituzionali deputati a tal fine, infatti, continuano a essere infestati da pratiche opache di reclutamento e da una balbettante progettazione di concrete politiche culturali: il PAN, Palazzo della Arti di Napoli, ne è l’esempio principale.
Le tante iniziative organizzate all’interno degli spazi liberati hanno rappresentato un attrattore insperato e di una certa qualità riuscendo, in alcuni frangenti, a ottenere un’eco nazionale. Con una minima spesa e grazie alla presenza di soggetti militanti o che si muovono negli interstizi tra pubblico e privato, pezzi di città sono stati rigenerati, ridisegnati non senza contraddizioni. Il capitale d’immagine derivato è stato utilizzato dall’amministrazione de Magistris per propagandare un’azione in realtà inesistente, semplicemente avallando un’ulteriore pratica suppletiva, “concessa” più che per mancanza di fondi, per assenza di capacità progettuale e di prospettive di lungo periodo. Siamo in presenza, quindi, di pratiche di rigenerazione urbana di matrice privata, militante, i cui effetti sono ancora da studiare, accomunate però da una sostanziale assenza di governance dall’alto, supportata da un’idea approssimativa dello sviluppo dell’area metropolitana di Napoli.
Non si spiegherebbero altrimenti le operazioni di concessione di spazio pubblico a fini meramente commerciali e non rigenerativi come le regate preliminari dell’America’s Cup, il quarto di finale della tennistica Coppa Davis e l’edificazione di una struttura come N’Albero, sintesi efficace dell’idea di attrattore del tutto privo di prospettiva ma di facile realizzazione perché “concertato” con soggetti privati con esclusive finalità di lucro. Concertazione che sembra impossibile realizzare per l’avvio di progetti e strutture di ben altro e ampio respiro. Quali?
Negli ultimi giorni è stata presentata una nuova versione del progetto bassoliniano di costituzione di un Museo del Mare e di un altro dedicato alle migrazioni. Presentato dal club Propeller, Confindustria, Confcommercio con la partecipazione del Comune, della Regione e di alcuni armatori partenopei, la proposta prevede la ristrutturazione dei novemila metri quadrati degli ex magazzini generali del porto di Napoli (attualmente abbandonati) per collocarvi, appunto, il Museo del Mare e delle Migrazioni. Si tratta di una sintesi di due strutture che dovrebbero essere autonome, di cui finora è dato sapere solo l’impiego di circa quaranta milioni di euro in gran parte dedicati “ad attività economiche che dovrebbero creare reddito e quindi far autofinanziare il museo, come un polo dello shopping, locali e bar”. Nulla trapela rispetto ai segmenti relativi alla ricerca, struttura delle esposizioni e natura culturale del progetto. Un museo dedicato al mare potrebbe mettere in sinergia le competenze della Stazione Zoologica Anton Dhorn con la ricerca storico-sociale dei vari atenei presenti in città e coinvolgere artisti, scrittori e gli stessi lavoratori del mare. Si potrebbe insomma ragionare su una struttura dinamica, orientata non tanto verso un’ennesima variante del consumismo folklorico, ma verso un approfondimento della storia e delle potenzialità della “risorsa mare”, per altro grande assente nella narrazione cittadina attuale.
Rigenerare non significa facilitare supplenze a buon mercato, ma assumersi la responsabilità (e l’onere) di progettare e realizzare adeguatamente strutture non solo divulgative ma anche moltiplicatrici di nuove professionalità nel campo della ricerca, convogliando i fondi privati verso attività capaci di trasformare la città in uno snodo del Mediterraneo da frequentare e non da consumare in un fine settimana. Andare oltre la Napoli Falce&Martini (o Dolce&Gabbana). (-ma)
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