M’alluntano,
ogni ghiuorno che passa m’alluntano
d’o munno cunusciuto fino ‘aiere,
me mporta sulo ‘e ll’albero e d’a stella,
capisco sulamente ‘e piccerille.
M’alluntano,
appriesso a na cumeta senza filo
ca me prumette ciele scunusciute,
me sento svacantato d’e penziere
leggiero e abbandunato d’e ppaure.
M’alluntano,
e int’o silenzio cierti vvote ‘a sento
chella canzone ca me canta ‘a dinto:
voce ‘e mamma, ‘e mistero, forse ‘e Dio,
voce ‘e chello ca overo mo songh’io.
Si comincia più o meno dall’inizio, dalle scuole elementari durante il fascismo e dai “pensierini” scritti in rima. Si finisce con M’alluntano, una delle sue ultime poesie, un testo che lui stesso definisce una specie di testamento spirituale, recitato dalla poltrona di casa, con alle spalle un sole alto e invernale. Ma è solo un caso. La conversazione con Salvatore Palomba, poeta, è un continuo salto nel tempo, lo stesso che attraversa Nu cielo piccerillo. Canzoniere di una vita (Cuzzolin Editore), l’antologia delle sue poesie pubblicata a settembre 2017, aggiornamento della prima edizione di qualche anno fa.
Attorno a noi le immagini del passato e i quadri di Franco Gracco, autore della copertina di Levate ‘a maschera Pulicenella, concept album del ’76 i cui testi sono tutti di Palomba, e che consacrò l’ultimo Sergio Bruni, popolare, verista, politico; poi le foto con il Maestro, e una in particolare scattatagli mentre suona la chitarra, con una lunga dedica scritta in pennarello bianco.
In quasi due ore Salvatore Palomba ci ha raccontato la sua storia e il suo lavoro. Abbiamo discusso di poesia e lingua, narrazione della realtà, scrittura e oralità. Abbiamo incontrato personaggi celebri e meno celebri: Di Giacomo, Cioffi, Sergio Bruni, Maria Paris, Ignazio Buttitta, “amicu e frati”, poeta siciliano e partigiano, cantore delle lotte contadine, dell’antifascismo, delle sofferenze della sua terra. Ma questa è un’altra storia, o forse no.
Partiamo dall’inizio. Sono passati sessantacinque anni dalla prima canzone scritta e poi cantata da Carla Boni alla Piedigrotta del ’53…
Sì, ma io ho cominciato a scrivere molto prima. Avevo sette anni e – con grande vergogna, devo dire – il mio primo componimento furono dei pensierini che la maestra ci aveva assegnato, addirittura sul tema “L’asse Roma-Berlino”. E niente, io li feci in rima: s’arrevutaje ‘a scola. Negli anni giovanili scrivevo soprattutto in italiano, poi a diciott’anni vinsi un premio per poesie dialettali e nel ’53 ho pubblicato la prima canzone, ‘O portalettere. All’epoca c’era un’organizzazione forte alla base della canzone napoletana, esisteva la Piedigrotta, esistevano le case editrici: La Canzonetta, Cioffi, Bideri, che erano le navi scuola per noi giovani autori. Andavi lì e cercavi di imparare dai maestri. Carla Boni andò da Vian, storico autore ed editore, e fu chiesto se qualcuno di noi ragazzi tirava fuori una canzone “allegra” per la Piedigrotta. Quel pezzo poi fu inciso anche da altre cantanti napoletane, ultima Maria Paris, che a me piaceva tantissimo, non solo come voce.
Era il momento più alto per la canzone napoletana?
No, non direi. Forse quello di maggior successo, ma il meglio era già passato. Prendi il Festival di Napoli, io ne ho fatti nove, e al di là di tutte le questioni sui brogli, la qualità era molto condizionata da altri fattori, come la presenza delle giurie esterne. Dato che si votava anche a Trieste, a Milano, si cercava di scrivere canzoni che assecondassero l’idea che gli italiani si erano fatti di Napoli. Questo faceva sì che la canzone perdesse in spontaneità, ispirazione, capacità di affrontare tutte le tematiche, e man mano si allagasse di stereotipi. Anche perché nel frattempo le case editrici del Nord avevano acquisito potere e bisognava scrivere le canzoni che volevano loro. ‘A pizza è di un autore milanese, la musica di Guaglione è di un milanese…
Per anni la poesia è stata per lei qualcosa di personale, una passione o poco più…
Molto più che una passione, ma nel frattempo facevo un altro mestiere, sono stato dirigente della Rizzoli a Napoli, Milano, Roma, Bologna. È stata la mia attività alimentare, quella che mi ha permesso di campare.
La sua prima raccolta di poesie in effetti è solo del 1975.
Dopo i festival ho ricominciato a scrivere “per me”. Alcune poesie erano state pubblicate in giro, c’è Napule nun t’o scurda’ che parla della Resistenza. Però in generale mi rifiutavo di farle uscire, anche a causa del mio ruolo nella Rizzoli, non volevo problemi con l’azienda. Poi nel ’75 ho pubblicato Parole overe con le Edizioni del Mezzogiorno. E quella fu l’occasione per cominciare a collaborare con Bruni, a cui devo essenzialmente una cosa: avermi fatto scrivere quello che volevo.
Come andò quell’incontro?
Un giorno, durante una presentazione al Circolo della stampa, Sergio venne a trovarmi. Ci conoscevamo da anni, aveva cantato la mia prima canzone nel ’65, al Festival, si chiamava ‘A vita mia. Qualche sera dopo mi chiamò e mi disse: «Salvato’, tu sì comme Picasso», intendendo dire che si emozionava per quello che scrivevo ma che erano cose fuori dai canoni. Ci incontrammo alcune volte e lui capì il potenziale che c’era nelle mie poesie, una narrazione della città e anche una lingua diverse. Così cominciò a portare in giro le poesie per i concerti: al Borgo Sant’Antonio Abate, a Forcella, piazze pienissime, migliaia di persone, dove lui recitava Vestuta Nera e Napule nun t’o scurda’. Dopo musicò Masaniello e Carmela, che pure era nel libro.
Sulla nascita di Carmela ci sono varie leggende metropolitane…
La scrissi una notte, ero solo in casa, la mia famiglia stava in vacanza a Ischia. Avevo la percezione di aver scritto qualcosa di importante, c’è tanto dentro: le metafore, Dio, Napoli, e tutto il resto. Ma ero perplesso sul titolo, perché mi sembrava un po’ banale. Soprattutto mi andavo chiedendo se ancora a quell’epoca, quel nome, Carmela, fosse diffuso tra le ragazze dei quartieri popolari. La sera dopo andai a mangiare in una trattoria che frequentavo, sotto Palazzo Donn’Anna, e continuavo a pensarci. Nel frattempo osservavo una ragazza bruna, bella, fiera, napoletana, che serviva ai tavoli e ci guardava dall’alto in basso, come una regina. Finché non la sentii chiamare dall’interno: «Carmela!», e così mi convinsi. Qualche tempo dopo raccontai questa storia a Sergio Bruni e fu lui a prendersi la briga di andarla a cercare e raccontarle tutto. Anni dopo la incontrai pure io, era diventata proprietaria della Zì Teresa. E la cosa singolare è che tante cose che le sono successe nella vita vanno nella direzione della canzone, di questa donna forte, coraggiosa.
Oggi quell’album, Levate ‘a maschera, Pulicenella, è universalmente riconosciuto come rivoluzionario nel processo evolutivo della canzone napoletana. C’è un racconto della città cupo, in pezzi come Carmela e Notte napulitana; ci sono temi sociali, si parla degli ultimi, dei parcheggiatori, degli spacciatori, delle prostitute. Non proprio “sole, pizza e mandolino”. Quali furono le reazioni all’epoca?
Mo’ ti faccio vedere una cosa.
Si alza e va a prendere un telegramma ricevuto dopo la messa in onda della trasmissione su Rai2 in cui si presentava il disco. Firma: Il sindaco, Maurizio Valenzi.
“Permettetemi di felicitarmi con voi – legge ad alta voce – e con il poeta Salvatore Palomba per la trasmissione televisiva Levate ‘a maschera Pulicenella. Particolarmente interessante è il tentativo di liberare la canzone napoletana dal folklore deteriore e dal sentimentalismo, attingendo alla cruda realtà di Napoli e alle drammatiche condizioni di vita del suo popolo costretto a inventare mille mestieri per non morire. I nuovi contenuti possono dare vitalità e freschezza poetica a un genere che le convenzioni accademiche hanno reso sterile e impopolare”. Era un album su Napoli, sulla Napoli reale. Chiappariello ‘o spacciatore, ‘O guardamacchine, eccetera. Anche quella trasmissione fu un bel riconoscimento: Sergio aveva da anni preparato un progetto per la Rai e aspettava di essere chiamato. Insieme a quel progetto ne portammo anche uno sul disco e con nostra sorpresa fu scelto. «Presentiamo alla nazione un nuovo volto di Sergio Bruni», disse il dirigente della Rai. In quindici giorni ci mandarono in onda, infatti uscì prima il programma e poi il disco.
Bruni riuscì con quell’album ad assecondare delle spinte che aveva dentro da tempo; Palomba poté vedere in musica le sue poesie, trovando qualcuno che gli facesse scrivere cose “a modo suo”. Chi guadagnò di più da questo scambio?
Il vantaggio fu reciproco. Lui ne approfittò per cambiare un po’ strada, cosa che voleva fare da tempo. Durante la trasmissione disse: «Io pensavo che avrei cantato per sempre le canzoni classiche, poi ho incontrato questo poeta e mi sono appassionato a un nuovo racconto di Napoli e a una nuova canzone». L’album ebbe grande successo, soprattutto nel pubblico popolare, che era stato il suo pubblico iniziale, mentre solo in una seconda fase conquistò un pubblico più borghese. E infatti mi ricordo il gelo che si fece quando lo portò ad ascoltare ad alcuni amici di Roma. Bruni è stato uno degli ultimi cantanti trasversali, forse dopo c’è stato solo Pino Daniele, capace di “prendere” tutta la città, sempre divisa musicalmente.
Anche sulla lingua ci fu un lavoro di modernizzazione. È una lingua che si evolve, che rispecchia quell’atmosfera cupa, a tratti spigolosa dei contenuti.
Sulla lingua c’è un discorso enorme da fare. Il presupposto è: le lingue si evolvono naturalmente. Il problema è che si dovrebbero evolvere con intelligenza, con consapevolezza. Il primo grande rivoluzionario della lingua napoletana è stato Di Giacomo, che l’ha resa più vicina al parlato, e con una grafia meno pesante, più libera da segni e segnetti; ma anche lui ha cominciato a scrivere in un modo, poi ha capito cosa stava succedendo e ha cambiato. All’inizio, per esempio, usava gli articoli “lo” e “la” come nel napoletano del Seicento, mentre poi li abbandona e compaiono “‘o” e “‘a”. Il vero imbroglio però sta succedendo ora. Nicola De Blasi ha scritto un libro, Storia linguistica di Napoli, in cui scrive che da Di Giacomo a Palomba, nisciuno è ghiuto ‘a scola, nel senso che non esiste un insegnamento della lingua napoletana, se ci pensi il corpus più importante ed esteso è proprio la canzone. Su un giornale mi hanno fatto dire che schifo i rapper, ma non è vero. Piuttosto, quello per cui mi arrabbio con i giovani, è la sciatteria. Noi leggevamo molto, perché a scrivere si impara leggendo e così si possono interpretare anche le trasformazioni.
Ma il trionfo dell’oralità sulla scrittura è un fenomeno generale della modernità, ed è internazionale.
Certo, ma la rappresentazione grafica della lingua è una convenzione. Se ognuno scrive a modo suo, tra non molto non ci capiremo più. Si potrebbero anche assorbire certe tendenze, ma devono essere codificate e bisogna seguire una linea logica.
Nella nuova edizione del libro ci sono, oltre a qualche innovazione linguistica “logica”, alcuni testi inediti.
Sì, ci sono delle aggiunte, tra cui una poesia che ho dedicato a Fausto Mesolella, che stava lavorando insieme a Raiz a un disco con le mie poesie, quando purtroppo è venuto a mancare. Mi sarebbe piaciuto molto fare questa cosa con loro, anche perché ci sarebbe stata tutta l’ultima parte della mia poetica che, forse sarà la vecchiaia, è più spirituale. Dopo Levate ‘a maschera Pulicenella che era il momento della “lotta”, ho avuto una lunga pausa. Poi, a partire dalla raccolta Chisto è nu filo d’erba e chillo è ‘o mare, ho cominciato a guardare più al mio mondo interiore. Per spiegarlo cito a volte due versi di Montale che dice che non gli occorrono più “le trappole, gli scorni di chi crede / che la realtà sia quella che si vede”.
Il libro è anche un viaggio nel passato, sono raccontate attraverso degli intermezzi in prosa fasi della sua vita, pensieri, incontri. Emergono ricordi molto belli, riguardanti personaggi che hanno accompagnato il suo percorso, da Bruni a Buttitta.
Sì, sono dei testi che aiutano a capire il contesto in cui sono state scritte alcune poesie. Con Buttitta, per esempio, c’era una bella amicizia, personale ma anche legata ai nostri lavori. Lui amava molto una mia poesia che si chiama ‘A libertà. Io, per abitudine, non mando libri a nessuno, ai giornali soprattutto, la critica non mi interessa più di tanto. Ma con lui era diverso, quando gli mandai Parole overe ci scambiammo per molto tempo delle lettere. Aveva una storia straordinaria, politica ma anche personale: dalla Resistenza fino a quando aveva fatto il magliaro in Russia; ogni volta che andavo in Sicilia lo andavo a trovare ad Aspra e lui mi scrisse delle bellissime parole quando gli confidai un mio momento difficile, dopo la morte di mio padre. Scrisse: “Salvatore, cosa mi fai sentire? Un poeta della tua forza può portare tutto il mondo tra le braccia”. Una volta portò al Teatro Nuovo un recital con Rosa Balestrieri. Era molto bello, ma lo andammo a vedere in trenta, tra cui io e Sergio Bruni. E dato che non avevano incassato nulla, dopo lo spettacolo finimmo a cenare a casa mia con il ragù avanzato della domenica, diluito con i pomodori pelati in bottiglia. Io, lui, Sergio e Rosa Balestrieri. Che naturalmente, dopo cena, finirono a cantare insieme per ore. (riccardo rosa)
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