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8 Luglio 2015

Balon Mundial #4. Soli contro tutti

Francesco Migliaccio
(archivio disegni napolimonitor)

Il giorno degli ottavi di finale la quiete s’era infranta sin dal mattino. «Brutte notizie. Abbiamo cinque giocatori squalificati a causa delle polemiche dell’ultima partita. Quattro giornate di esclusione per Said. Due per Sarda, Ibrahim e Sidi. Kofi non può giocare per somma di ammonizioni. L’Africa United è decimata». Poco prima della sfida contro l’Iran, i raggi del sole e le voci all’intorno mi attraversavano la testa senza concedere tregua. «Chissà cosa scrisse l’arbitro sul referto». «Ma no, Sarda è innocente! Anche Sidi, che ingiustizia. Certo Said perse la testa… Ma gli altri non fecero nulla di male». Il foglio dei provvedimenti disciplinari appeso sul cancello degli spogliatoi recitava: “Comportamento intimidatorio e offensivo”. Poi Marco ha pronunciato parole confortanti: «Hanno riammesso Sarda e Sidi». Così all’orizzonte è comparso Sarda in sella alla sua bici, appena in tempo, dopo una pedalata dalle palazzine occupate. Nel frattempo i giocatori iraniani si scaldavano interdetti nell’attesa assolata.

Silvia ha seguito la squadra da bordo campo fin dalla prima partita. Nel suo saluto ho avvertito una nota di preoccupazione: «Ieri sera Niang si è rotto un dito della mano». Niang è il portiere. «No, nessuna riserva. Abbiamo un solo portiere». Marco camminava su e giù rimuginando sulla formazione. «Mettiamo Blessing in porta». Mi sono voltato verso Blessing, il capitano: difensore lento e massiccio, animo battagliero e maestro nella marcatura. Nelle mani nerborute stringeva la maglia bianca numero uno. «Sai, Blessing in settimana è diventato padre». «Ehi, Blessing. Congratulations. A new inhabitant of the Ex-Moi!». Intanto i giocatori erano entrati in campo ciondolando. «La partita durerà mezzora, in caso di pareggio decideranno i rigori», ha detto l’arbitro. Ho rinunciato a comprendere il senso dei regolamenti e mi sono voltato verso la panchina dell’Africa United: i sediolini vuoti erano l’emblema dell’emergenza. C’era solo Sekou seduto con le gambe allungate e i piedi scalzi. Marco ha allargato le braccia: «Ma come hai fatto a dimenticarti le scarpe?». Sekou ha alzato gli occhi al cielo sorridendo.

Aliou, panchinaro infelice, ha avuto la sua grande occasione contro l’Iran. «La tecnica di Aliou non si discute, è bravo. Ma guarda, guarda come è spaesato». Ha esibito un colpo di tacco impacciato ed efficace, poi ha provato un passaggio filtrante molto pericoloso. «Bravo Alì!». I timidi applausi dalla panchina si sono trasformati poco a poco in consigli impazienti. «Alì! Joue! Joue!». Volavano le prime critiche dei compagni. «Alì, gioca». Poi anche Marco ha inveito: «Alì, la devi passare!». A quel punto Aliou s’è strappato la pettorina di dosso ed è uscito dal campo. «Oh, ma che fai? Non puoi lasciare la squadra in dieci!». Lui è andato a sedersi vicino alla bandierina, serio con il capo abbassato. Marco, infuriato, mi ha lanciato un urlaccio. «Tu, reporter, corri a prendere le sue scarpe che facciamo il cambio con Sekou».

Il disertore s’era scelto l’angolo ombroso del campo. Mi sono seduto al suo fianco in ascolto. «Urlano, urlano a ogni errore. Eh, ma cosa c’è da urlare? Se uno gioca devi lasciarlo giocare». Con la coda dell’occhio ho visto il gol di Daniel, terrore delle difese lente. Aliou ha interrotto la doglianza con un salto di gioia, poi è tornato cupo e ha ripreso il filo del ragionamento. «Siamo pagati? No, giochiamo per divertirci. Perché gridare, gridare allora? Io sono qui per dare una mano ma così non si può». Blessing, dimentico del suo ruolo, ha dato uno spintone molto violento all’attaccante iraniano. L’arbitro ha fischiato il rigore. «Io sono fatto così, che ci volete fare? Dio mi ha creato che mi offendo subito. In Senegal quando mio padre diceva “Lavora, lavora!”, io subito smettevo e incrociavo le braccia. Non mi vieni a dire “Aliou gioca! Aliou lavora!”, perché io abbandono tutto e questo è il mio carattere». L’iraniano era sul dischetto. Abbiamo trattenuto l’aria calda nei polmoni e il pallone è andato su, su oltre la traversa. Così Kartel – l’attaccante centrale tecnico e generoso – è partito in contropiede e ha segnato il due a zero. Il fischio finale dell’arbitro è stato un inno all’impresa dell’Africa United.

Durante i festeggiamenti è apparso Said con il volto toccato dall’amarezza. «Perché, voglio sapere perché non posso giocare. Ora sto qui e aspetto chi mi ha buttato fuori». Said indicava il foglio delle esclusioni, là dove appariva il suo nome insieme alla sentenza: quattro giornate di squalifica. «Io so perché, sì. Perché sono somalo. Sarda e Sidi sono stati riammessi, io no. Loro non sono somali». Si è raggrumato un piccolo capannello intorno a noi. «No, Said! Questo non c’entra. Tu l’altra volta hai detto all’arbitro…». Said esprimeva una rabbia ferita. «Ah! Tutti quanti erano contro l’arbitro, tutti. La mia era la voce di tutti, ma pago solo io. Ora voglio indietro i miei documenti e me ne vado. Basta». Mentre ascoltavo Said ho visto l’Africa United tornare lentamente in campo. Ho cercato gli occhi di Marco. «Non si capisce nulla. Non siamo ancora qualificati perché dobbiamo giocare un’altra partita di mezzora. Contro chi? Di nuovo contro l’Egitto».

Mi sono seduto a bordo campo con le mani sull’erba sintetica alla ricerca di un poco di concentrazione. Marco discuteva con Aliou: «Il calcio è così, Alì. Devi accettare le critiche, e pensare sempre a migliorarti». Aliou s’è come distratto e ha guardato oltre le reti. «Sentite i tamburi lontano. Vuol dire che da qualche parte gioca il Senegal». Il trequartista egiziano era d’una agilità ispirata e i nostri giocatori davano l’impressione di arrancare spossati. Marco ha fatto uscire James e ha gridato: «Sarda, vai in attacco». James ha abbandonato in silenzio il campo e si è inoltrato nei terreni incolti alla ricerca di un angolo dove pregare. Nel frattempo Sarda ha conquistato il pallone al limite dell’area e ha calciato di sinistro. La sfera è passata silenziosa e leggera fra decine di gambe ed è entrata in porta. L’eroe del giorno è scomparso in un abbraccio di maglie rosse. Marco è entrato in campo con ampi balzi: «Ho pensato la mossa giusta!».

Alla fine della partita tutti sono andati da Marco e lo hanno lanciato in aria per due volte. Dopo ci siamo ritrovati fuori dagli spogliatoi in un’atmosfera di festa finalmente tranquilla. Said s’aggirava ancora furioso e sconsolato. «Giocheremo i quarti contro la Romania oppure contro il Camerun», ha detto qualcuno. Seikou aveva un sorriso ironico e disincantato. «Speriamo per la Romania, basta partite contro altri africani». Nel frattempo uscivano gli egiziani dalle docce con una lieve tristezza sulle labbra. «Auguri per i quarti di finale ragazzi», è stato un sussurro. Ho immerso la testa sotto l’acqua d’una fontana per ritrovare qualche idea. Poi la voce di Sarda s’è sollevata sulle altre: «Avevamo tutti contro, così ci siamo uniti e abbiamo vinto». Ancora non so se sia vero. La verità pare inafferrabile sotto il sole che stordisce. Eppure si sentiva nell’aria la presenza di una reazione collettiva, come uno scatenamento emotivo d’una rivalsa in mezzo alle contraddizioni. (francesco migliaccio)

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