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recensioni
11 Ottobre 2016

La concretezza de Le ultime cose, primo film di finzione di Irene Dionisio

Francesca Saturnino alfonso santagata, alina marrazzi, christina rosamilia, daniele segre, eugenia d'aquinio, fabrizio falco, irene dioniso, l'intervallo, le ultime cose, leonardo di costanzo, mit, movimento di identità transessuale, nicole de leo, roberto de francesco, salvatore cantalupo, tempesta, torino
(disegno di resli)
(disegno di resli)

Torino, oggi. Angoli di strade, interni di tram e treni in movimento, marciapiedi affollati di volti, di stracci, di resti. Le ultime cose è una partitura sinfonica di rumori ambientali e silenzio, dove la musica, poca, accompagna per contrasto l’inizio e la fine di una breve zoomata nella nostra quotidiana (dis)umanità. Irene Dionisio – Torino, classe 1986, una laurea in filosofia estetica e sociale, master in documentario con Alina Marrazzi e Daniele Segre, una fitta produzione di corti, documentari e istallazioni su migranti, lavoro, questioni di genere – questa volta ha scelto il banco dei pegni come luogo di osservazione del reale. Qui entrano in collisione, talvolta mischiandosi, storie e traiettorie di vite diverse che misurano la temperatura della nostra società. Il banco come moderna agorà abbassata e avvilita dell’economia irreale, dove come ultima cosa ci s’impegna gli oggetti, e quelli sì che un valore ce l’hanno: affettivo, prima che economico. Fabrizio Falco – punto di vista privilegiato – è il nuovo perito del banco: giovane, puro, onesto perché viene da una famiglia modesta. Roberto De Francesco, il suo capo di mezz’età, cinico e viscido, sottostima gli oggetti, vende la disperazione della gente al miglior offerente sul marciapiede subito fuori al banco, dove Salvatore Cantalupo e compagni mandano avanti un mercato nero dei pegni.

In questa organizzazione criminale finisce suo malgrado pure Alfonso Santagata, delicato capofamiglia dall’accento meridionale – forse ex operaio emigrato al nord – che con l’amata moglie Eugenia D’Aquinio si fa in quattro per mantenere la figlia cassiera al supermercato con un figlioletto a carico senza papà. A questo quadro – complesso perché profondamente rispondente al reale – si aggiunge la bellezza eterea e perturbante di Christina Rosamilia, trans di passaggio in città e in fuga da chissà cosa: la madre non le apre neanche al citofono e continua a chiamarla col nome maschile, e allora trova casa in una piccola pensione gestita da Nicole De Leo, maitresse irresistibile che nella realtà è una delle fondatrici del Mit, Movimento d’Identità Transessuale di Bologna.

Il film, reso prezioso anche dalla scelta di un cast di attori prevalentemente teatrali, sviluppa le (immaginabili) trame di queste vite portandoci verso un finale sospeso ma ritornante: tutto inizia com’è cominciato. Siamo sopraffatti da un meccanismo che va avanti comunque, ingurgita, consuma tutto: la morte, la sofferenza, i rapporti, “le cose”. Nel mezzo ci sono i sacrifici morali e carnali dei personaggi, le loro esistenze fragili di pegni pagati, riscattati, persi. Nel mezzo ci sono gli oggetti: un bottone staccato da una pelliccia per ricordo, una cornice antica, una collana. Feticci, simulacri, metafore di una dignità da cui il giovane perito viene letteralmente travolto. Nel mezzo ci sono i gesti: non eclatanti, nascosti, cui non sempre si fa caso. I piccoli gesti che danno senso alle (ultime) cose.

Oltre alle scene nel banco, la trama si svolge in spazi interni ridotti, intimi, familiari, mentre l’esterno è piatto, squadrato, regolare, non caratterizzato. Lo sguardo neutro della telecamera si ferma sul finestrino di un tram in movimento, intravediamo la piazza di un mercato rionale vuota dove una signora recupera cibo dagli scarti alimentari; le mani del giovane perito che accompagnano, prendono, toccano dolcemente il corpo della trans nell’avvicinarla; i fotogrammi in bianco e nero delle telecamere di sicurezza, occhio panottico e chirurgico della nostra contemporaneità. Le immagini scivolano lente ma ruvide, man mano che si procede la visione apre e dilata crepe dolorose per chi guarda, per chi sceglie di dare peso a quel guardare. Non è dato sapere se alla fine il nostro giovane (anti)eroe del banco dei pegni, melvilliano Bartleby rinchiuso nel suo “I would prefer not to”, abbia ceduto alla violenza del profitto, o se continuerà la sua resistenza non violenta, silente, ostinata. Il giudizio lascia spazio a una narrazione poetica che non forza la realtà ma semplicemente la mostra. Prima opera di fiction di Irene Dionisio, che ne firma sceneggiatura e regia, il film è prodotto dalla Tempesta, la stessa dell’Intervallo di Leonardo di Costanzo. Dopo una prima proiezione alla Settimana Internazionale della Critica di Venezia, unico film italiano, è miracolosamente (ancora) nelle sale. (francesca saturnino)

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