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6 Giugno 2018

Soumaila uno di noi. Un corteo a Rosarno dopo l’omicidio del sindacalista maliano

Monitor
(disegno di sam3)
(disegno di sam3)

da: La camera dello scirocco

Il corteo è piccolo, sarà un centinaio di persone. È venuto fuori dalla baraccopoli. Dall’inferno. E loro sembrano diavoli. Cappellucci di lana, pantaloni di tuta, magliette di calcio, alcuni in canotta e scalzi. Diavoli rimpannucciati dalla Caritas. Poi ne arrivano altri, a piedi o in bici. Che qui, per le bici, sembra di stare in pianura padana. Il cielo si è fatto improvvisamente velato, una cammarìa di scirocco dopo giorni di sole pieno. Si sarà stufato anche il cielo, qui, di sovrintendere le cose del mondo. Libertà libertà, gridano gli africani. E poi: toccano uno, toccano tutti. E ancora: Soumaila, uno di noi. Ecco, se volete capire cosa sia il capitalismo 4.0 e le magnifiche sorti e progressive dell’automazione venite qui, a San Ferdinando, a Rosarno, dove regna la schiavitù. Dove regna l’apartheid. Venite qui, e forse riusciremo insieme a capire cosa significhi “non abbiamo da perdere che le nostre catene”.

Un bracciante nero sventola una foto di Soumaila. Io non ho paura, urla verso le auto,  ferme ora che loro si sono sdraiati per terra a un incrocio. Io non ho paura. Qui è un programma minimo di riforme. Tutti a sbracciarsi, che no, la xenofobia non c’entra. I carabinieri, il procuratore, il sindaco, il farmacista del paese. Che devono essere altri i motivi per cui un uomo imbraccia un fucile, si apposta da una posizione di vantaggio e spara quattro colpi contro tre uomini. Che, solo per un caso del destino, sono negri. Macché xenofobia, deve esserci un altro motivo. Chessò, la vendetta, per dire. Perché a Macerata capita che uno fuori-di-testa spari ai negri per razzismo, e si bardi del tricolore, ma a Rosarno no. A Rosarno ci sparano per vendetta. Costa dieci euro una scatola di cinque cartucce a pallettoni FEDERAL F130 BUCK CAL.12/70 – perciò fate un po’ voi il conto di quanto vale la vita di un lavoratore africano qui.

Il sindaco non si capacita del perché tirino sempre per la giacchetta Rosarno, «…città accogliente. Sin dai primi anni Novanta è stata tra le prime comunità d’Italia ad accogliere e aiutare, con profondo sentimento umanitario, migliaia di extracomunitari in fuga dai paesi d’origine a causa di miseria, malattie, guerre», dice. Come se la rivolta del 2010 fosse scoppiata a Trezzo sull’Adda, che so, o a Cividale del Friuli. Vuole incontrare il nuovo ministro dell’Interno il signor sindaco, perché si adopri a combattere l’illegalità, e i veri e propri ghetti che si sono formati. Ma quelli a cui hanno sparato erano regolari, sindaco, con tutte le carte in regola, sindaco. E i ghetti che crescono a dismisura – tutta la tendopoli di San Ferdinando è un ghetto che nessuno può dire quanti ci stanno là – non sono una cosa per caso, ma “tollerata”. E funzionale. Perché se tu non li vuoi i venti euro a giornata che ti do, per raccogliere le arance e i mandarini che la mattina all’alba ti bruciano le mani per il freddo, ne ho altri cinquecento che sono pronti a prendersi di meno. A Soumaila è capitato più di una volta di accettare di meno, perché aveva una figlia di cinque anni, e una moglie, lì in Mali. Una volta lo chiamavamo “esercito industriale di riserva”, era il modo per indicare la sottoccupazione e la disoccupazione. Ma le parole cambiano. Sono le cose che rimangono sempre le stesse.

Salvini adora Rosarno. Ha preso un sacco di voti qui, alle ultime elezioni. Sarà stato per la proposta di flat-tax, magari. No? E poi è tornato, per ringraziare. E c’era un sacco di gente ad ascoltarlo e applaudirlo e farsi i selfie, nell’aula magna del liceo Piria, con i drappi di Salvini premier, appesi dappertutto. Ma le scuole possono fare ste cose? Ah sì, è un presidio di legalità, quel liceo. Sono domande da dottor Sottile, queste; qui si va all’ingrosso. E le cose sono bianche o nere.

E la differenza è questa di qua: che nel 2010 un gruppetto di giovanotti di Rosarno decide di farsi un giretto in automobile e di spararci col fucile a aria compressa al primo negro che incontravano – così, per festeggiare il nuovo anno, come tirare a un segnale stradale, che qui sono pieni di buchi, che ci sparano per provare le armi. E oggi, 2018, un signore si apposta e ci tira col fucile da caccia. È un bel salto, no? Nel mezzo è capitato che una piccola banda di deficienti armati di catene e mazze salivano su una Punto e menavano al volo i negri che beccavano di ritorno dai campi in bici. Fratture, costole rotte, traumi cranici. Quante cose sono cambiate nella città dell’accoglienza umanitaria.

Ci vuole niente perché un incendio divampi in una distesa di ripari di fortuna quando metti su un telo di plastica con due assi di legno e poi dei cartoni tutto intorno a ripararti dal freddo. Succede in tutti gli slums del mondo, a Dacca, a Niamey, a Manila. A San Ferdinando, Italia. Successe così a gennaio, quando tra le fiamme morì Becky Moses che al campo era arrivata pochi giorni prima da Riace, perché le avevano negato il visto di asilo politico. È per quello che ti industri, che magari se ci metti due lamiere quella baracca non prende fuoco e tu finisci arrostito dentro. Era il lavoretto extra di Soumaila Sacko, cioè quando non lo chiamavano a rompersi il culo in campagna per quattro soldi. Ognuno fa gli extra che può, nella baraccopoli di San Ferdinando. C’è chi vende qualche bibita, c’è chi prepara panini o uno stufato. Tutta una economia, è la legge del mercato, no? Così, s’era partito a piedi, Soumaila con due suoi amici, Drame Madiheri e Madoufoune Fofana, a cercare lamiere. Nello scattio del caldo, le quattro del pomeriggio. Loro intanto si portavano avanti, a vedere, scegliere, accantonare, e poi magari passava il furgone di un amico e caricavano. È una fabbrica abbandonata, l’ex Fornace. E pure sequestrata, perché ci avevano stoccato rifiuti che venivano dalla Centrale di Brindisi o da chissadove. In attesa di bonifica. Ai proprietari non interessa neppure più. Che la smontassero tutta, pure i muri, per quel che gli importa.

Alle cinque e mezza, sei del pomeriggio si sente il primo colpo di fucile. Soumaila e Drame sono sul tetto e Madoufoune sta di sotto, hanno già messo da parte tre lamiere, un buon lavoro. Non fanno in tempo a capire – che i colpi sono arrivati alle gambe e ai piedi – e a scendere di corsa che arriva il secondo sparo. Soumaila è colpito alla testa. Poi arriva il terzo sparo, e a Madoufoune va bene che una lamiera lo ripara e ferma la corsa dei pallettoni. È un buon bottino di caccia per averci speso dieci euro.

Vogliamo giustizia, grida Abou nel megafono, nella piazzetta di San Ferdinando, intanto che si aspetta che una delegazione incontri il sindaco e il vicequestore. La UE ha mandato un mucchio di soldi nel comparto agricolo per sistemare condizioni abitative dignitose per i migranti, dove sono? Non vogliamo ancora tendopoli. Ci sono le telecamere – arrivano sempre i giornalisti, in Calabria, quando succede un fattaccio. Abou è un sindacalista di base, e qui lo rispettano tutti. Parla di lavoro e dignità, di italiani e migranti, di chi aizza la guerra tra poveri, di fratellanza. Intorno, ci sono i giovani delle associazioni che da anni si battono per condizioni migliori. Soumaila è stato assassinato, dice Abou, e vogliamo giustizia. Non era un ladro, era in prima fila nelle lotte, al corteo del primo maggio è venuto a sfilare. È stato assassinato in un contesto politico, grida Abou. Vogliamo giustizia, grido anch’io. Contro questo cielo di scirocco. (lanfranco caminiti)

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