Suoni graffiati, fischi, respiri, soffi, melodie spezzate, silenzi: sono queste le prime cose che saltano all’orecchio ascoltando Asylum, l’ultimo lavoro del sassofonista napoletano Antonio Raia, uscito da poche settimane per l’etichetta portoghese Clean Feed, a tre anni dal precedente Stories of a vain diary. Ma ascoltandolo colpisce anche un senso melodico fuori dal comune, e la scelta di un suono che sa ipnotizzare e rapire, tutt’altro che scontato. Il risultato è un disco non convenzionale, registrato per sassofono solo, con un suono disegnato da dieci microfoni posizionati in modo da sfruttare il respiro dell’architettura di un luogo, il refettorio dell’ex Asilo Filangieri.
A un’analisi più attenta, quindi, a comporre quest’opera c’è molto più di un sassofono solo, in termini di materiale artistico e umano: c’è l’idea di giocare con il suono, con l’identità e con la memoria, c’è il senso di uno spazio che ha un’accezione tutt’altro che neutra nella storia della città, c’è l’idea della comunità che attualmente vive quello spazio; e c’è soprattutto il lavoro di Renato Fiorito, fonico e compagno di avventura il cui lavoro è stato fondamentale per la scelta, il disegno e il missaggio dei dieci microfoni utilizzati, e quindi del suono da dare a ogni momento della performance, con risultati sorprendenti. Non è stato fatto nessun taglio, nessuna post-produzione, solo un sapiente uso del mixer a enfatizzare un aspetto del suono piuttosto che un altro. Se si alza il volume, in alcuni momenti si può sentire addirittura qualche passaggio di motorino. Stiamo in una bellissima stanza riverberata, in un edificio storico di Napoli, nel 2018, e questo dato risulta tutt’altro che irrilevante.
«Ho sempre sottovalutato l’importanza del fonico, e spesso nel mondo professionale il fonico è considerato un semplice tecnico che fa quello che tu gli dici. Se invece entra dentro la tua musica, ti conosce e ti capisce, cambia tutto. Renato mi dava delle dritte su cosa fare per ottenere una determinata sonorità, un effetto particolare in quello spazio. Io mi sono fidato ciecamente, volevo soltanto soffiare per ore e ore», mi racconta Antonio davanti a un caffè corretto al rum.
Ho conosciuto Antonio Raia tanti anni fa alle jam del Crossroad Improring, in cui non esistevano regole se non quella di suonare cose fuori da qualsiasi cliché, e in questo si è sempre fatto notare. Mi racconta della sua esigenza di fare un disco in totale libertà creativa, senza mediazioni, autenticamente suo, ma anche della necessità di far sentire, con la propria voce, una grossa quantità di materiale e di melodie che teneva accumulate dopo anni di militanza in larghi ensemble, con Elio Martusciello e nel gruppo di Caterina Palazzi. E mi parla dell’urgenza di definire un proprio senso di identità, attraverso la decostruzione di canzoni che fanno parte ormai del senso comune, come Dicitencello Vuje, Torna a Surriento e Misty, in un un rimando alle radici in cui l’approccio alla tradizione è fatto con il pensiero della contemporaneità. «Io suono in quel modo perché per me la musica è la cosa che riesce a dare voce a una parte di me che non sa utilizzare altro tipo di vocabolario, e che può parlare solo in quel modo: se trovo qualcuno che è disposto ad ascoltare, ben venga. Per me è una violenza fare le cose in stile. Studiare uno stile per raccontare il proprio tempo, invece è interessante. Sento l’esigenza di trattare la radice come trampolino, non come rifugio», dice ancora Antonio, e per rafforzare il suo pensiero mi racconta quello sketch della Smorfia, in cui Troisi, Arena e Decaro si fanno beffa delle aspettative che pubblico e giornalisti hanno rispetto al loro essere napoletani.
«Sono innamorato dell’essere napoletano, ma non è che “faccio” il napoletano, è talmente insito che esce in ogni modo, in ogni espressione del mio essere, senza bisogno di calcare la mano». Infatti, della celeberrima canzone napoletana Torna a Surriento usa solo due battute, per il resto è una lunga variazione sul tema; Misty, una ballad che si ascolta di frequente nei concerti jazz e nelle jam session più tradizionali, a stento emerge da un vortice di note irriconoscibile, e in Dicitencello vuje c’è uno sfasamento di come vengono suonate le battute della melodia originale, in un gioco di rimando e di scomposizione della stessa, quasi a voler sottolineare i diversi punti di vista da cui si può guardare (ascoltare in questo caso) un oggetto. Ma lo stesso vale per tutti i brani, anche quelli originali, presenti nel disco: The lights inside scream con il suo vorticoso crescendo, e Lullaby, che ripete ipnoticamente gli stessi intervalli, con delle micro-variazioni che spiazzano l’orecchio. Avanguardia, sperimentazione, sono solo parole: «Le etichette possono essere utili nella vita per orientarsi ma in realtà traggono in inganno. Trovo pericoloso identificarsi in un genere. Se volete considerarla avanguardia, scrivete pure. In realtà sono semplicemente io che faccio una cosa, nella contemporaneità». E la contemporaneità, sembra suggerire, è il regno delle infinite possibilità.
Lo stesso nome del disco, Asylum, non è univoco e si presta a diverse letture: sicuramente rimanda all’ex Asilo Filangieri, dove è stato registrato: «Nasce come luogo sonoro. Cercavo di dire le mie cose e cercavo un luogo complice. Solo dopo mi sono reso conto di aver fatto questo lavoro nel posto che spesso ha ospitato cose importanti per me, quindi mi è sembrato bello poter citare questa cosa. Quando cercavo il titolo dell’album, Asylum è sembrato perfetto: come luogo politico, la casa che ha dato opportunità a chi non aveva spazio di potersi esprimere. Ma anche in termini macro-politici, come diritto negato, cui è dedicato il secondo brano del disco, Refugees. Infine come scuola dell’infanzia, come luogo di gioco». The children in the yard è il nome della decima traccia del disco, il bambino nel cortile; e mi chiedo se non sia proprio “gioco” la parola che meglio descrive questo viaggio sonoro, anche perché spesso ricorre nella nostra conversazione. Non è forse proprio questo il senso più autentico e profondo della musica creativa? Un gioco di suoni, spregiudicato e senza regole, se non quelle del proprio sentire. (ciro riccardi)
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