da: Horatio post
Resta ancora Barra da raccontare in questo viaggio nella Napoli orientale (che ha già fatto tappa a San Giovanni e Ponticelli), anzi ‘A Barra, come la chiamano qui, con l’articolo, e in quella particella c’è tutta la rivendicazione di una storia e del prestigio perduti: l’idea che non di un quartiere si tratti – completamente invisibile e fuori dai giochi – ma della prima città vesuviana, la porta del Miglio d’Oro. «Il dieci per cento delle ville vesuviane si trova a Barra, ce ne sono addirittura undici» mi dice Pompeo Centanni, lo storico che mi accompagna nel tour. L’appuntamento è a piazza De Franchis, con i lecci e il monumento ai caduti della Grande Guerra. C’è la lapide coi centosessanta nomi dei cittadini barresi morti nel conflitto, l’ultimo libro Pompeo l’ha presentato venerdì scorso alla biblioteca comunale, scavando con ostinazione negli archivi ha restituito un volto e una storia a ciascuno di essi, in una struggente Spoon River all’ombra del Vesuvio. Intanto, non sai se aprire o chiudere l’ombrello, è il lunedì della grande tempesta di vento, il vulcano è un gigante nero tra le nuvole, sulla città color sabbia s’illumina ogni tanto una cupola, o una scaglia di luce in mezzo al mare.
Da piazza De Franchis, in parallelo, si dipartono i due corsi, la struttura di Barra è particolarissima, ha una doppia anima, c’è il tracciato settecentesco, popolare, di corso Sirena, con gli antichi edifici a corte; e quello novecentesco, borghese, di corso Bruno Buozzi; le due strade corrono fianco a fianco, parallele. Anche a Barra, come a San Giovanni e Ponticelli, è merito della pianificazione pubblica, dal Piano delle periferie al PRG, aver salvato questi che sono luoghi chiave della memoria, riconoscendo loro la dignità di centro storico.
Subito, su corso Buozzi, troviamo la sede della Società Operaia di Mutuo Soccorso, sulla facciata c’è un bassorilievo con due mani che si stringono, perché qui il welfare era già nato nel 1899, prima che ci pensasse lo Stato, come rete spontanea di solidarietà, con la Società che finanziava agli agricoltori l’acquisto degli attrezzi, indennizzava i giorni di malattia o infortunio, soccorreva i familiari in caso di morte improvvisa del lavoratore. «È espressione del movimento cattolico, dopo la Rerum Novarum – mi spiega Pompeo – con le organizzazioni della sinistra c’era un’intesa, una specie di divisione dei compiti, la Società di Mutuo Soccorso pensava all’assistenza, queste ultime alla difesa dei diritti e all’attività nelle fabbriche». Nella sede troviamo una decina di soci, attraverso le tempeste del Novecento e le crisi di inizio millennio, la Società è ancora attiva: del resto, la disoccupazione nel quartiere è al quaranta per cento, la protezione sociale è tornata a essere un tema caldo, anche se le chiome dei soci sono tutte d’argento, e la difficoltà è piuttosto quella di coinvolgere i trentenni e i quarantenni, con la credibilità di un nuovo progetto.
«I fili che attraversano la storia di Barra – mi dice ancora Pompeo – che è rimasta comune autonomo sino al ’25, sono gli stessi delle altre due città orientali di San Giovanni e Ponticelli: l’agricoltura e la fabbrica. Erano i luoghi della produzione materiale, gli abitanti erano coltivatori e operai, ma la parabola della crisi è stata diversa per i tre centri, e a Barra probabilmente più dura, perché qui non c’è mai stata la densità industriale di San Giovanni, mentre l’agricoltura, che era assai fiorente di produzioni frutticole, ortive e viti, è stata completamente distrutta dall’urbanizzazione degli anni Sessanta e Settanta, con le lottizzazioni che non hanno risparmiato proprio niente, nemmeno i giardini storici delle ville vesuviane, trasformati in agglomerati edilizi senza qualità. È finita l’industria, ed è finita anche l’agricoltura, un quartiere di quarantamila abitanti si è trovato senza più alcuna base produttiva».
L’altra faccia della desertificazione urbana la raccontano gli esponenti del Comitato di cittadinanza attiva per la Barra, con loro ripariamo dal vento e la pioggia in un negozio su corso Sirena. «Barra è il quartiere invisibile», esordisce Rino Amato, presidente del comitato. «Schiacciato tra Ponticelli e San Giovanni, è rimasto come separato dal resto della città. Le autostrade e superstrade per collegare Napoli ci hanno chiuso da ogni parte, siamo diventati un’enclave: il trasporto pubblico non esiste più, l’unica linea di autobus che serviva le diverse parti del quartiere, che ha un territorio assai vasto, è stata abolita; non è rimasta una banca, un cinema, un teatro. Trentasettemila abitanti sopravvivono così, senza servizi, e non c’è nemmeno un motivo per venire qui: a San Giovanni ora hanno il campus di Ingegneria, a Ponticelli l’Ospedale del Mare; a Barra invece non c’è nessuna funzione di ordine superiore, prima almeno c’era la Pretura, magistrati importanti hanno iniziato qui la loro carriera, s’era creato un indotto, ora niente».
«Poi c’è la crisi di rappresentanza», interviene Luigi Valentino, altro membro del comitato civico. «Il quartiere non ha più voce. Nella Municipalità 6, che comprende anche Ponticelli e San Giovanni, Barra, che pure ha un terzo degli abitanti, ha eletto solo tre consiglieri su trenta, in consiglio comunale il quartiere può contare su un consigliere su quaranta. Per un’area come questa, dove la partecipazione alla vita politica è sempre stata una cosa importante, è il segno della resa».
Eppure, ci sono reti sociali che resistono. Percorriamo i basoli scuri di pioggia di corso Sirena fino alla chiesa madre di Sant’Anna, ci aspetta il vicario, don Fulvio Stanco, è un ragazzo di trent’anni, ha un fisico da rugbista e lo sguardo sicuro, è lunedì mattina ma l’antica navata, con gli affreschi di Solimena, è piena, ci sono molte donne del quartiere. Dopo la funzione è tutto un via vai, c’è un atmosfera attiva, ognuno ha un ruolo, un compito da portare a termine. «In un territorio così particolare, stiamo sperimentando una nuova organizzazione per la parrocchia, un modello diffuso. Gli incontri li facciamo a turno nei rioni di edilizia pubblica, nelle corti del centro storico. In ognuno di questi luoghi c’è un responsabile, un gruppo che tiene le fila, per molte attività ci appoggiamo alle scuole. In questo modo cerchiamo di costruire una riflessione comunitaria, un percorso per migliorare, anche attraverso piccole cose, le condizioni di vita del quartiere. La difficoltà più grande – continua don Fulvio – è la desertificazione: di fronte al vuoto di prospettive i giovani vanno via: delle trenta coppie del corso prematrimoniale, solo due o tre rimarranno a vivere qui. Se non invertiamo questa emorragia il quartiere non ha futuro, ogni sforzo è inutile».
In effetti, la demografia indica un declino inarrestabile: dopo la crescita nei decenni di edilizia pubblica, il quartiere perde ora regolarmente due-trecento abitanti l’anno, la popolazione che nell’80 aveva toccato i quarantacinquemila abitanti, è adesso intorno ai trentaseimila, siamo tornati ai livelli del 1955.
Lasciamo corso Sirena e risaliamo via Giambattista Vela. C’è un cancello serrato, e dietro un parco rigoglioso, palme e lecci che crescono da soli, è il bosco di Villa Salvetti, una delle undici ville vesuviane sei-settecentesche di Barra, è proprietà comunale, come le altre è prigioniera di una storia infinita di restauri sciatti mai completati, desolanti abbandoni, nuove distruzioni. Il risultato è che nemmeno una delle ville, coi loro parchi, è attualmente visitabile, aperta al pubblico, ed è questa la principale battaglia del comitato civico: fare di questo straordinario patrimonio l’attrattore turistico-culturale che manca. Poco oltre, troviamo sbarrato anche il cancello del grande parco di Villa Letizia, nella luce gialla dello scirocco le palme oscillano, sembra un bosco tropicale in disfacimento, l’autunno del patriarca, e fa veramente male osservare da fuori questi quattro ettari di verde recluso, in abbandono, in un quartiere che ha bisogno proprio di tutto.
L’avanzata del nulla stava a un certo punto cancellando un altro pezzo di storia, il centro Ester, che è proprio di fronte, nella stessa strada, con le palestre e i campi sportivi nel verde, un movimento sportivo capace di portare la squadra femminile di un quartiere operaio a giocare la seria A di pallavolo. La bacheca scintillante di trofei è la prima cosa che ti accoglie entrando nella bella palazzina centrale. Negli ultimi anni, una gestione malaccorta aveva condotto al dissesto finanziario e alla chiusura, e la buona notizia è stata la riapertura del centro lo scorso settembre, grazie all’intervento di un giovane imprenditore di Barra. Si chiama Pasquale Corvino, ha quarantadue anni, dopo essersi fatto le ossa fuori è tornato qui. Ha trasformato il negozio di famiglia nella più importante piattaforma e-commerce al mondo di abbigliamento per l’infanzia, utilizzata da sedicimila aziende in venticinque diverse nazioni del mondo, fino all’Arabia Saudita e al Qatar. Nella BabyDream, l’azienda che Pasquale ha fondato, lavorano trentacinque persone, sono ragazzi e ragazze come lui, molti sono compagni di scuola e di quartiere, che ha portato con sé nell’avventura. «Quando ho iniziato a pensare alla possibilità di fare qualcosa per il centro Ester, m’è preso un sentimento fatto per tre quarti di entusiasmo, per un quarto di paura. Tutti, a partire dalla famiglia, mi scoraggiavano, mi dicevano che non era il caso di correre rischi inutili, e io mi chiedevo il rischio dove fosse, allora ho chiesto a un’importante società di consulenza di preparare un business plan, alla fine il mio progetto ha vinto, in quaranta giorni abbiamo restaurato e rimesso in funzione tutto, ora ci lavorano quarantacinque persone, che seguono l’attività sportiva di mille e cento ragazzi. Un’altra cosa che il centro Ester sta facendo – prosegue Pasquale – è aiutare le scuole pubbliche del quartiere a riattivare e attrezzare le palestre, vorremmo che i giovani di Barra possano studiare qui, a casa loro, in strutture di qualità. Poi stiamo cercando di dare la possibilità a ragazzini disagiati di fare sport da noi, iniziamo con un gruppo di cinquanta bambini della scuola media Rodinò».
Già, la Rodinò: è la scuola di frontiera di Barra, ci lavora un manipolo di docenti di valore, sulla facciata ci sono gli striscioni delle onlus – Save the Children, Il tappeto di Iqbal -, la platea dell’istituto comprende le aree più disagiate del quartiere, il rione delle Case Gialle, poco più in là, oltre la boscaglia e i binari, c’è il campo rom. Il modello con il quale il centro Ester si è salvato ricorda molto quello vincente della periferia “interna” della Sanità, con il capitale territoriale che viene riportato in vita dai ragazzi, le onlus, uomini di chiesa e imprenditori illuminati, in attesa che politiche pubbliche decenti si rimettano in moto.
«Mi raccomando – dice Pompeo mentre ci salutiamo, con il tifone che incalza – ditelo che questa non è solo la terra delle stese, il triangolo della morte, che c’è gente che cerca di resistere, pare che i media siano in grado di raccontare solo questo». Torna l’immagine del quartiere invisibile, ma il guaio vero è l’isolamento. Barra non è più città, ma non è mai entrata nella vita del capoluogo, per questi luoghi Napoli non è riuscita ancora, a distanza di un secolo, a costruire un destino comune, un progetto amministrativo decente, e la verità è che non esiste solo un muro tra il centro e l’area orientale, ma tanti muri, che separano le tre città dell’est, chiuse nel risentimento di una storia che non c’è più, nell’assenza di un futuro insieme, che nessuno ha pensato mai di costruire. (antonio di gennaro)
Leave a Reply