La scena è nuda. Appena illuminata. Sembra un accampamento nomade. Ci sono solo quattro uomini di diverse nazionalità avvolti in grandi tuniche e scialli dai colori vivaci che raccontano la loro storia. Un percussionista giapponese ai lati del palco con un grande tamburo accompagna le loro narrazioni mitiche: suoni arcaici, primordiali, capaci, nello stesso tempo, di scandire il flusso della vita e di risvegliare i sentimenti e la memoria di una comunità. Battlefield (al Teatro Bellini dal 20 al 25 febbraio), di cui Peter Brook cura la regia con Marie-Hélène Estienne – tratto dal testo teatrale di Jean-Claude Carrière e dal poema indù Mahabharata da lui messo in scena a metà degli anni Ottanta (uno spettacolo di nove ore andato in scena in una cava al Festival di Avignone) – è la storia di una tragedia collettiva. Di uno sterminio. Narra di una guerra tra i membri di una stessa famiglia, la famiglia Bharata, che distrusse milioni di vite umane. E ora alcuni dei sopravvissuti, il vecchio re Drhtarastra, “condannato a vagare senza occhi”, e il giovane Yudisthira, figlio del suo nemico che diventerà il nuovo re, si ritrovano faccia a faccia tra le macerie, e meditano su quell’orrore di cui essi avvertono tutto il rimorso e il peso nella propria coscienza. La guerra è finita, non c’è nessun vincitore. Sono tutti morti, figli, cugini, fratelli. Siamo stati tutti sconfitti, dicono. Vincitori e vinti, siamo noi i colpevoli di questo orrendo massacro. «Avremmo dovuto impedire questa guerra».
In Battlefield (Campo di battaglia) non ci sono più le azioni concitate, le urla, la violenza dei gesti e dei corpi del suo Marat/Sade e di altri lavori che, sulle tracce di Artaud e di Grotowski, sconvolsero la scena contemporanea negli anni Sessanta. Quello di Brook è ora un meditare lento sul tempo dell’essere sottratto a ogni inutile effetto spettacolare: una sorta di spazio vuoto – per citare il testo del suo più famoso contributo teorico –, “un teatro senza teatro” che raccoglie il disperato monito di un naufrago del terzo millennio.
Estrema sintesi della originaria messinscena, nella sua essenzialità, il dramma mostra insieme il sentimento più intimo dei personaggi e l’impossibilità che la guerra possa rappresentare una qualche soluzione utile all’umanità. Poetici sono anche quei momenti dello spettacolo che rinviano a una ritualità sacra, e a narrazioni – come quella del neonato abbandonato in una cesta sul Gange – che ricorrono anche nei testi fondativi della religione cristiana. Il centro della riflessione di Brook resta comunque sempre l’uomo nella sua assurda e stupida sete di conquista e di potere. In questa riattivazione drammaturgica – dopo la battaglia fratricida che ha lasciato sul campo solo avvoltoi e rapaci che si dividono i corpi dei guerrieri morti – i mitici eroi sono ritratti nella loro “nudità”, mentre lo scenario apocalittico evocato dagli attori non lascia intravede nessun possibile ritorno alla vita: «Il sole sorge sulla terra coperta di lance dove continuano a cadere archi e frecce». Gli stessi dialoghi, come quelli tra la principessa e Yudisthira, sembrano solo frammenti di una memoria sepolta.
Destrutturando questo capolavoro indiscusso della poesia indiana, Brook interroga con disarmante semplicità il nostro presente. Guarda alla povertà e ai massacri del sud del mondo – commessi spesso in nome di un Dio, di una religione – come al momento più tragico di una comunità che sprofonda ogni giorno nella barbarie. Il finale con la principessa e il re cieco che si avviano a terminare i loro giorni nella foresta – luogo simbolo del viaggio dei saggi verso l’assoluto e la verità della morte – e quell’assolo di tamburo con gli attori che ascoltano in silenzio, immobili, uno accanto all’altro, come in uno stato di grazia, sono forse gli unici segni di speranza in un altrove di pace. Al debutto, Brook affermò in un’intervista che con Battlefield egli intendeva lanciare un monito ai grandi della terra, per invitarli a riflettere sul rischio che le loro strategie provochino e ripetano altre terribili catastrofi. Come accadde a Hiroshima. Naturalmente nessuno lo ascoltò, ma lui da spirito libero non ha mai abbassato la guardia. E ancora una volta ha pensato al teatro come a un eccezionale medium per sottrarsi a ogni forma di nichilismo e menzogna indicando un diverso destino alla storia degli uomini. Notevole l’energia e l’intensità interpretativa di Carole Karemera, Jared McNeill, Ery Nzaramba e Sean O’ Callaghan. Le musiche in scena sono di Toshi Tsuchitori. (antonio grieco)
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